Ho sempre avuto un debole per i romanzi d’esordio. Ai tempi dell’università, quando inciampavo per la prima volta nella narrativa di un autore che fino a quel momento mi era estraneo, raramente mi perdevo all’interno dei suoi capolavori, più spesso andavo alla ricerca delle cosiddette “opere minori”, quasi sempre le prime. Oggi la stessa curiosità mi muove verso gli esordienti: cosa spinge le nuove voci a tentare di farsi ascoltare? Come si nutre il loro immaginario?
Cos’hai nel sangue (nottetempo, 2022), il romanzo primo di Gaia Giovagnoli, la mia curiosità l’ha infiammata, mi ha indotta a pormi altre domande. Perché Giovagnoli è un’autrice giovane ma già molto colta, lo si intuisce subito, e la sua immaginazione narrativa è multidirezionale: parecchio lo si deve alle sue conoscenze etnologiche, altro all’interesse per l’esoterismo, qualche scelta narrativa rimanda a recenti serie televisive weird, vari personaggi potrebbero appartenere a un romanzo gotico, alcune scene sarebbero perfette per una distopia e infine, se la guardo nel complesso, questa trama mi sembra un tessuto di richiami letterari cuciti insieme da una mano raffinata.
A dar voce alla storia ci sono due personaggi. Da un lato la protagonista Caterina (nome di santa e di strega), una giovane donna in conflitto col suo corpo (troppo magro, ma, mentre il peso controllato ossessivamente sulla bilancia continua a calare, lei continua a percepirsi ingombrante) e con sua madre (una personalità rigida, costretta a rinunciare al tentativo di creare con la figlia qualsiasi forma di intimità per via di un eccesso di pudore e di segreti), dall’altro il professor Alessandro Spina, un antropologo che, come tutti gli antropologi, è disposto a rinunciare quasi a tutto quel che ha (ivi comprese rispettabilità professionale e salute psichica) per cercare una verità. Il resoconto dei fatti da parte di Caterina e gli appunti di lavoro di Spina costruiscono la narrazione nella sua dimensione del reale, ma va precisato che questo romanzo viaggia su due binari paralleli che convivono in armonia, anzi spesso sconfinano piacevolmente l’uno nell’altro: c’è anche il piano dell’onirico, fatto di sogni, visioni, allucinazioni, presentimenti, che riattivano zone inesplorate di un vissuto che appartiene alla protagonista in una forma diversa da quella esperienziale. I due si incrociano in un terreno di interesse comune, quello di Coragrotta, paese natale della madre della protagonista, in cui Caterina cerca un modo per ricongiungersi alle radici familiari e svelare a sé stessa il proprio destino, Spina cerca un’epifania per risolvere il mistero dei riti ancestrali che sospetta si svolgano ai piedi del monte Sospiro. Queste sono le coordinate spazio-temporali ed emotive per aggirarsi all’interno del romanzo.
Ma perché un luogo diventi un paesaggio lo si deve popolare. E Giovagnoli è abilissima, con la sua scrittura evocativa che tradisce la provenienza dal mondo poetico, ricca di immagini liriche e votata a un’attenzione quasi morbosa alla fisicità delle parole (ad esempio: «Nell’esatto istante in cui le parole si sono formate dentro di me, ho sentito il loro peso che si allargava») a risvegliare tutti i sensi del lettore mentre lo accompagna in un’ambientazione macabra e inquietante: percepiamo l’odore dei gatti selvatici, assaporiamo i funghi (presumibilmente velenosi) «salati ma rotondi, gonfi sul palato», assistiamo alla danza delle foglie pendenti delle piante carnivore che ondeggiano leggere al ritmo del vento. Non è necessario conoscere la wicca per sapere che certi territori sono magici, possiedono un potere difficile da metabolizzare. Alcuni paesi non sono fatti per lasciarsi scegliere, piuttosto scelgono, attraggono a sé: chi è nato lì se li sente dentro e ci convive anche a distanza, chi non vi è vincolato per nascita cerca di trasformare la distanza originaria nel privilegio di una contemplazione straniera e vergine. E Coragrotta è un posto così: misterioso e stregonesco, prepotente e capriccioso, un incrocio del destino.
Questo tipo di scenario funziona benissimo come teatro del romanzo, che è un lavoro polisemico, edificato su una fitta rete di simboli e di corrispondenze, sulle ambivalenze e su grumi tematici destinati a non sciogliersi per restituire un’immagine complessa sia dell’umano sia del soprannaturale, indagabile certo, ma non pienamente conoscibile. L’elemento simbolico che ricorre più spesso è il sangue, che evoca per associazione il femminile (la vera vita delle coragrottesi, nella narrazione del villaggio, comincia quando queste «iniziano a sanguinare») ma anche e soprattutto la violenza della discendenza («La mamma era diventata il mio male e sapeva che, a questo punto, non poteva più farci nulla… La vera forma del sangue è una catena, e il suo peso è insostenibile»).
“Perdonare tutto vuol dire comprendere tutto”, sosteneva Paolo Mantegazza, e qui l’impressione è che la sentenza si sia ribaltata: comprendere tutto (o provarci) permette alla protagonista di perdonare, forse perfino la sua famiglia. Mi pare che il tema della predestinazione, in particolare sotto le spoglie di una eredità familiare, sia centrale in molta della narrativa degli ultimi decenni, forse per il crollo di ogni certezza di stampo razionale e storicista che caratterizza i nostri tempi, forse per la ormai vexata quaestio della morte del padre. Come accennavo, nel romanzo risuonano diversi echi letterari, dalla prima Margaret Atwood (una scrittrice cara alla nostra Giovagnoli, lo deduciamo sia dai riferimenti intertestuali disseminati qui e là sia da una certa assonanza di atmosfere) all’ultima Amelie Nothomb, quella de I nomi epiceni con la sua metafora del “sangue intossicato”. L’originalità di Giovagnoli viene fuori soprattutto nella rappresentazione delle ricadute concrete di un’impostazione filosofica di questo tipo: le radici dei coragrottesi sono catene che li privano del libero arbitrio, legandoli a una terra e a un destino predeterminati. Di conseguenza, i personaggi di Cos’hai nel sangue non vivono per l’azione, ma per l’interpretazione:
Mentre mi lascio scivolare sul fango e i sassolini, mentre torno verso la chiesa e distinguo la viva luce insinuarsi tra i rami più radi, sempre più aperti, sempre più fragili e scostanti, mi sento parte di un disegno smisurato. Mi sento già scritta – non so come o da chi.
L’esistenza, in altre parole, si compie nell’attività esegetica: cerchiamo risposte nelle nostre origini come si interrogano i tarocchi e proviamo svelare il disegno inciso nel nostro sangue mentre lo ricalchiamo (più o meno inconsapevolmente), in un incessante lavoro a metà strada fra quête ed enquête.
Credo che questa sia l’anima, o una delle anime, di Cos’hai nel sangue, un testo che si pone in relazione dialogica col lettore perché chiede di essere spiato nelle verità che nasconde fra le pieghe delle righe, di essere inseguito nei suoi straripamenti in una dimensione allegorica. Un romanzo da rileggere, alla ricerca di ulteriori strati semantici, nel tentativo di penetrare il più a fondo possibile nella profondità della poetica della sua autrice.