Bianco su bianco

Riportiamo un estratto da Bianco su bianco, romanzo di Simone Ghelli, edito da Castelvecchi, in libreria dal 3 febbraio 2023.
Ringraziamo l’autore e l’editore.

 

 

Bianco su bianco

 

 

Per risparmiare, Alberto aveva preso il Flixbus con partenza da Tiburtina alle nove del mattino. Il viaggio era durato oltre venti ore, che aveva trascorso a leggere, sonnecchiare e guardare fuori dal finestrino.
Con sé non aveva granché, soltanto quattrocento euro – un quarto circa dei quali spesi per il biglietto – ricavati poche settimane prima dalla vendita di una delle sue piccole teste.
Il gallerista – un viscido che sembrava uscito da una caricatura di George Grosz – le aveva messe su un portale online.
Alberto non ne era entusiasta e aveva categoricamente rifiutato l’ipotesi di aprire un profilo e farsi promotore della propria arte.
«Non ho la pretesa di piacere agli altri» gli aveva detto.
Mi aveva raccontato che il gallerista – un uomo sulla sessantina, che sudava anche in inverno e biascicava tutto il giorno un sigaro puzzolente – gli aveva indicato la copia di un Van Gogh appesa alla parete.
«Vorrai mica fare la fine di quello lì?» gli aveva chiesto.
Alberto gli aveva risposto che quello lì aveva cambiato il modo di guardare i colori.
«Io con l’arte ci devo guadagnare i soldi. E anche te, altrimenti non mi avresti portato questi lavori. Dunque faremo così».
Ansimando, l’uomo aveva preso in mano il telefono e si era stiracchiato all’indietro sulla sedia.
Era luglio inoltrato e sulla camicia del gallerista si erano formate due grosse chiazze all’altezza delle ascelle. Alberto non aveva resistito alla tentazione di paragonarlo al rubicondo banchiere con le armi sotto al braccio dipinto in Eclissi di sole.
«In qualità di pittore» mi aveva confidato «io non mi sento affatto il generale con la sciabola insanguinata, né uno dei personaggi acefali seduti attorno al tavolo. Sono piuttosto incline a considerarmi il somaro con il paraocchi sul punto di cadere nel vuoto».
Il gallerista si era intrattenuto con una sua dipendente, con la quale ostentava una certa confidenza.
«Carissima, so che sei molto impegnata. Perdonami, ma se non te lo dico adesso poi me ne dimentico. Lo sai come sono fatto, no? Nella testa ho un mulino che macina idee».
“>Dopo queste parole aveva iniziato a ridere, per poi affogare in una serie di colpi di tosse che lo avevano costretto a prendere un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni.
«Scusami eh, dovrei proprio smettere con il tabacco».
Poi aveva annuito, sorridente.
«Guarda, quello è un bel piantagrane. Digli di ripassare da me per la valutazione, non perderci troppo tempo. Pensano tutti di essere Picasso».
A quel punto aveva preso un foglietto di carta e si era appuntato qualcosa a matita, sottolineandolo con una riga marcata.
«Brava, quelli così devi adularli. Se la prendi sul personale, è finita. Tornando a noi, invece, ho qua Alberto… Esatto» aveva aggiunto dopo una breve pausa. «Alberto D. Appena arrivi dovresti occuparti d’inserire alcune sue opere su quel sito. Poi ti mando le specifiche».
L’uomo aveva acceso il sigaro tutto biascicato e aveva sbuffato dalla bocca una nuvoletta di fumo che odorava vagamente di vaniglia. Poi gli aveva fatto l’occhiolino.
«Certo che ha capito. Lo sai quanto sono convincente, no? Qua serve money! Ti aspetto, carissima».
Dopo aver riagganciato, il gallerista aveva appoggiato i gomiti sul piano lucido della scrivania e unito i palmi delle mani davanti al viso.
Nel guardarlo, Alberto aveva pensato che stesse fissando la punta delle proprie dita, come per prendere meglio la mira. Lo disprezzava con tutto se stesso e sono sicura che, se avesse potuto permetterselo, gli avrebbe spaccato sulla testa la cornice con la stampa di Van Gogh.
«Ormai funziona così, bisogna adattarsi ai tempi. Le persone vanno su internet, non si scomodano a venire qua. Vedi forse qualcuno oltre a noi?».
«Così comprano l’immagine di un’immagine».
«Comprano qualcosa che si adatta al loro ambiente. Pensi davvero che si mettano lì a guardare come hai steso il colore? O che colgano i riferimenti ai tuoi maestri? E poi sei tu che non vuoi partecipare agli eventi. Per quelli come te, internet è la soluzione migliore. Vedrai che qualcosa venderemo».
Alla fine il gallerista l’aveva avuta vinta, e a ragione. In poco più di un mese era riuscito a trovare un acquirente per una delle sue piccole teste.
Tolte le commissioni, ad Alberto erano andati in tasca abbastanza soldi per poter raggiungere l’obiettivo che si era prefissato. Me ne aveva parlato soltanto alcuni giorni dopo.
«Ho venduto la numero cinque» mi aveva detto.
Ero un po’ dispiaciuta perché si trattava di una delle mie preferite, ma lo avevo assecondato lo stesso dicendogli che aveva fatto bene.
«I soldi servono, lo sai».
«Quanto ti hanno dato?».
«Poco. Quattrocento».
A quel punto mi ero spostata in cucina per riempirmi un bicchiere d’acqua. Mi sentivo talmente stanca che persino trascinare i piedi mi costava fatica. La sensazione di fare qualcosa di inutile, destinato ad essere presto sostituito dal semplice tocco delle dita sullo schermo del proprio telefono, mi faceva sentire svuotata.
Quando ero tornata da lui, Alberto mi aveva chiesto come fosse andata la mia mattinata. Gli avevo spiegato che il caldo mi trasformava in una specie di ameba e che anche fare la cosa più semplice mi sembrava un’impresa.
«Ma al lavoro ce l’avete l’aria, no?».
Certo che ce l’avevamo, ma uscire all’una era un inferno. Ricordo che quel giorno facevano trentasette gradi e che l’umidità era così alta da percepirne oltre quaranta. Nell’aria si sentiva odore di bruciato, lo stesso di quando rifacevano l’asfalto delle strade.
Alberto mi aveva indicato la finestra della camera.
«Ho tirato giù gli avvolgibili. Ti va di mangiare qualcosa?».
Gli avevo chiesto se lui avesse già pranzato.
«Ho fatto colazione tardi».
Aveva apparecchiato metà tavolo e si era seduto dall’altro lato, con un bicchiere che aveva riempito di vino direttamente da una dama da cinque litri che prendeva da un Vini e Oli.
«Ti stai sciupando» mi aveva detto.
Sapevo di avere delle ciocche di capelli appiccicate sulla fronte sudata. Mi ero vista nello specchio all’entrata. Il mio aspetto era dimesso e ormai mi trascuravo da un pezzo.
«Mi dispiace, sono molto stanca».
Nella mia bocca il riso era una poltiglia che faticavo a deglutire. Alberto mi aveva chiesto com’era.
«Mi dispiace di non essere abbastanza carina».
Glielo dissi con l’intenzione di farlo sentire in colpa, ma il tono dimesso con cui pronunciai quelle parole creò un effetto diametralmente opposto.
Durante il viaggio, in uno dei tanti momenti sospesi tra la veglia e il sonno, Alberto aveva rielaborato la scena, riempiendola di dettagli che poteva aver visto o anche solo immaginato. Sul diario aveva descritto le mie labbra dischiuse, su cui erano rimaste alcune particelle bianche di riso; le dita della mia mano sinistra che afferravano il bordo del tavolo; il rumore metallico del cucchiaio che colpiva il piatto; i rapidi movimenti dei miei occhi sfuggenti, che vagavano tra il piatto, lui e la finestra. Alcune parole, invece, era quasi sicuro di averle smarrite.
Era passato poco più di un mese, ma la sua era una memoria soprattutto visiva, che registrava più facilmente una sfumatura di colore o la contrazione di un muscolo – e il verbale, con i suoi doppi sensi e il dilemma dell’interpretazione, è una trappola di cui non mi fido. Non ricordava, ad esempio, se dopo io avessi parlato ancora. I chilometri che aumentavano – e insieme a loro gli elementi che entravano in scena, facendogliela apparire sempre più nitida – quegli stessi chilometri lo stavano allontanando dalle parole, che faticava persino a riconoscere come sue.
Alberto non voleva più sentirsi l’artefice del mio decadimento fisico e psicologico. Questo è un fatto che aveva provato a spiegarmi e che ho ritrovato nel suo diario. Anche se quando ci eravamo conosciuti io già lavoravo al call center, gli era chiaro che la convivenza avesse tolto a quell’opzione la caratteristica della provvisorietà. Sapeva anche che non avrei accettato una simile spiegazione, così mi aveva detto che se ne andava perché la sua arte aveva bisogno di libertà.
«Questo peso mi inchioda. Io non sono come te, non riesco a vivere con i sensi di colpa».
Ricordo con precisione quelle parole, la sensazione di sentirmi trafitta come uno di quegli insetti da collezione. Non mi capacitavo che fosse davvero riuscito ad accusarmi di una cosa del genere.
Dopo ero rimasta in silenzio – di questo ne sono sicuro, come degli occhi increduli, spalancati, con cui mi ha fissato nella penombra della cucina.

Estratto da “Bianco su bianco” di Simone Ghelli, Castelvecchi editore.
© 2023 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione

 

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Simone Ghelli, Bianco su bianco, Castelvecchi 2023, pp. 128

Simone Ghelli ha studiato il cinema e per un po’ ha fatto il critico, prima di dedicarsi alla narrativa. È stato tra i fondatori del collettivo Scrittori precari. Con la raccolta L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) è stato finalista del Premio Loria 2011. Nel 2013 è stato tra gli autori selezionati per l’antologia Toscani maledetti (Piano B edizioni), curata da Raoul Bruni. Alcuni suoi racconti sono comparsi su riviste e siti letterari vari, tra cui Minima et Moralia, Nazione Indiana, Poetarum Silva e Cadillac Magazine. Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di racconti Voi, onesti farabutti (CaratteriMobili), nel 2017 la raccolta Non risponde mai nessuno (Miraggi Edizioni), nel 2019 la raccolta La vita moltiplicata (Miraggi Edizioni) e nel 2022 il racconto lungo Ronnie Banti ha perso la scommessa (Divergenze).




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