di Lucrezia Lombardo
1. Donna domina
Il termine donna rimanda alla medesima etimologia del sostantivo Dio, a propria volta connesso con la parola dominio. La donna (signora) gode, etimologicamente, del medesimo rispetto che si deve a Dio e rappresenta colei che, nelle proprie mani, serba un potere paragonabile a quello del padre celeste; il regno del possibile e della libertà è perciò originariamente destinato anche alla donna, che può disporre, al pari dell’uomo, d’infinite possibilità di azione. Eppure, il linguaggio tradisce la realtà, poiché l’esser-donna ha smarrito, nella carne, il proprio originario significato, per cedere il posto a una definizione sessualizzata, che vede nella “femmina” l’esemplare destinato alla gestazione, all’esser-posseduto-da: è questa, la prima ragione per cui dovremmo mutare l’espressione “Femminismo” in “Differentismo”, inaugurando così una nuova prospettiva di pensiero ed un nuovo dibattito sulla condizione femminile, che parta dalla considerazione della differenza tra i sessi, poiché proprio dalla valorizzazione e dalla comprensione della differenza, dipende l’accettazione dell’altro e il riconoscimento, a costui, di una piena dignità. Il termine donna si lega inoltre al sostantivo dono, con il quale condivide l’etimologia. E se la donna è dono, è al contempo colei che si dona e che dona. Proprio su questo abuso del dono occorre riflettere, sottolineando come il dare se stesse costituisca, per le donne, uno degli elementi che le costringe maggiormente ad annullarsi, nientificando spesso la loro essenza, i propri progetti e la volontà.
Il-dare-all’altro, a differenza del dar-si, implica, invece, una distanza sacra ed inviolabile, posta a separazione tra il sé femminile e l’alterità. Tale distanza, fatta di spazio fisico (spazio necessario ad evitare il degradarsi dei rapporti in possesso) e di tempo per sé, è ciò che consente alle donne di esprimere la generosità, l’accudimento, l’accoglienza, senza tuttavia annullarsi.
Molto è stato detto sulla condizione femminile, sulle diseguaglianze di genere, sulle responsabilità che la cultura e l’educazione patriarcali hanno in tal senso. Molto è stato detto sulle cause sociali che hanno edificato paradigmi subalterni per le donne e sulla differenza biologica tra “maschile” e “femminile”, oltre che sull’abuso, da parte della cultura dominante, delle conoscenze scientifiche e biologiche che sono state, di volta in volta, intenzionalmente impiegate per legittimare assetti di potere impàri, tesi a soggiogare le donne. Molto è stato scritto, discusso, analizzato, ma poco è stato risolto. E se l’uomo, nell’era del post-biocapitalismo, è essenzialmente corpo da sfruttare lavorativamente (sia in senso materiale, che cognitivo), la donna è invece corpo da sfruttare sessualmente e lo è a tal punto da aver assimilato, come naturale, l’ipersessualizzazione che la società pretenderebbe d’imporle. Persino i paesi occidentali, che vantano assetti politici democratici, non si sono ancora sbarazzati dell’idea che la donna coincida, essenzialmente, con il proprio corpo, spacciando per emancipazione una libertà sessuale che, ancor più, ha intrappolato molte nel loro ruolo di merci seducenti e di membra eternamente giovani. Infatti, laddove il post-biocapitalismo persegue la smaterializzaizone dell’intero esistente – lo si vede nel trionfo della finanza in economia, nella sostituzione crescente del virtuale al reale, nell’architettura spaziale e nel progresso tecnologico tout court -, alla donna tocca invece il compito di compensare tale astrazione: a lei spetta scendere in basso, restare coi piedi talmente attaccati per terra da dover accettare che il proprio sé sia null’altro che un bel corpo che viene esposto. La donna manifesta, in questo modo, le proprie membra al mercato – non v’è alcuna differenza, infatti, tra il mercato che propone merci inanimante e quello che, di contro, propone merci vive e oggettificate – e, sessualizzandosi e adempiendo al raggiungimento degli standard etico-estetici oggi vigenti, si autodisciplina, si acquieta, ottiene ed accetta “il posticino nell’angolo” che il potere le ha riservato. Anonime, svuotate dell’identità interiore, imbalsamate in corpi plastici e tutti uguali, le donne s’aggirano come gusci vuoti per le strade reali e virtuali dei nostri giorni, tutte perfettamente obbedienti e schierate in fila, al pari di Barbie pronte ad essere acquistate.
La mercificazione delle donne, persino “nel libero Occidente”, coinvolge dunque ciascun individuo di sesso femminile, nella misura in cui l’industria culturale e quella del potere (attraverso la forza seducente dei mass-media e delle immagini, mediante l’estetizzazione prodotta della moda ed il benessere prodotto del denaro, oltre che attraverso la collaborazione della scienza e della chirurgia estetica1) continuano a promuovere un’idea del femminile come oggetto di scambio, bene da esibire, proprietà da custodire.
Sono proprio i meccanismi di potere interiorizzati dalle donne a dover essere decostruiti, se davvero intendiamo parlare di emancipazione femminile. Non vi sarà infatti alcuna autentica emancipazione delle donne dal loro essere merce – in Occidente, così come nella cultura islamica radicale, ed in tutti quei contesti in cui la religione, le tradizioni, o la miseria obbligano centinaia di giovani a matrimoni forzati, alla poligamia, alle mutilazioni genitali, ad affittare il loro utero, o ad intraprendere la via della prostituzione e della pornografia -, se prima non verranno compresi e smascherati i meccanismi di dominio che, spesso volontariamente e inconsapevolmente, le donne continuano ad accettare e ad applicare su se stesse. E, benché tali meccanismi abbiano origini sociali, politiche, economiche e culturali e provengano dall’esterno, quel che occorre indagare è, anzitutto, l’interiorità e l’autopercezione femminili, di modo che le donne stesse giungano a non accettare pratiche che intendono mercificarle, annientando il loro valore, la loro dignità, la consapevolezza e la loro libertà.
2. Immaginifiche immagini
Non è più l’esperienza vissuta e toccata, a strutturare l’identità femminile individuale, bensì le immagini che, attraverso il loro potere, riplasmano la soggettività della donna. Quest’ultima è adesso colei che conosce e scopre se stessa “non in quanto essere incarnato e unico”, ma attraverso le immagini che la società, la cultura, i mass-media e gli altri le propongono e le applicano.
Il corpo femminile è storpiato e contaminato, sin dalla tenerissima età, dal potere delle figure, dalle figure al potere e dalla dittatura di un visibile privo di profondità, di sguardo autentico e di cura. La vista è infatti il mezzo principale di appropriazione e stimolo di un incessante desiderio di possesso. Alla donna, così, non è dato guardarsi senza applicare a se stessa categorie visibili esterne, promosse dal mercato e dalla moda. Alla donna non è dato di percepire se stessa senza prima un confronto, per immagini, con i modelli diffusi, né è dato di guardarsi al di là dell’idea di un corpo pre-strutturato e al di là del dover-apparire-agli altri. Essere donna al giorno d’oggi significa allora, anzitutto, essere un terreno su cui si proiettano immagini altrui, immagini per prodotti e consumistiche, partorite dal biocapitalismo e a partire dalle quali il soggetto femminile deve imparare a pensarsi. Nell’età della virtualità e della finzione, che riduce il carnale a eidolon trasmutando il reale in pluralità fantasmatiche mediante il potere di una visibilità priva di sguardo contemplativo e interiore, la donna viene violentata quotidianamente da figure di corpi femminili con le quali il corpo concreto è costretto a confrontarsi e a scontrarsi, sentendosi perennemente non all’altezza. L’incapacità di guardarsi con i propri occhi, al di là dello sguardo sociale, culturale, commerciale e altrui, rende la donna dell’età del post-biocapitalismo “una bambola da vestire e rivestire” a sfinimento, un guscio privo d’interiorità e che, nella propria passività, accetta d’essere espropriato della capacità di pensar-si e di saper-si. Ella rinuncia così all’essere il presupposto primario e fondante del proprio pensamento e della propria autopercezione, cedendo la propria libertà alle immagini sociali.
Donna è oggi colei che deve non saper-si, colei che non deve giungere a contemplarsi al di là delle immagini corporee che ne intrappolano l’interiorità. “La bruttezza” costituisce, in tal senso, uno dei maggiori tabù per il femminile: assieme al peso in eccesso, essa esclude dalla società, e da ruoli di maggior prestigio, tutte coloro che non possono esporre la propria figura, poiché non incarnano i canoni richiesti. Il femminile viene pertanto fatto coincidere con ciò che deve apparire, che deve esser esposto, conformemente alle immagini che hanno ormai impregnato e contagiato lo sguardo di tutti. Il femminile diviene il trofeo che il mercato predilige esibire e se le immagini si sovrappongono al reale e lo modificano, la donna è colei che è destinata ad imitare l’immagine, venendo perciò confinata ai margini di un mondo fantasmatico, disincarnato, virtuale, che ne neutralizza la coscienza e le possibilità concrete di azione e di scelta.
Affinché le donne recuperino la loro libertà, occorre allora, anzitutto, abolire e ostacolare il mercato delle immagini mass-mediatiche e virtuali che si rivolgono al corpo femminile e che lo manipolano, imponendo modelli etico-estetici e cognitivi – modelli che vengono introiettati – tesi costantemente a sollecitate nel femminile un’auto-osservazione corporea, un continuo senso di frustrazione dovuto all’imperfezione fisica, un perpetuo “valutare il proprio aspetto”, gettando così il tempo che resta da vivere nella futilità. Sbarazzarsi delle immagini significa perciò comprendere che lo scopo di esse è privare ogni donna del proprio personale valore, per ridurre ogni singolarità femminile incarnata ad un modello, ad una categoria astratta che pieghi a sé l’essenza singolare. Tali categorie astratte hanno per contenuto l’oggettificazione sessualizzata che vuole la donna – in Occidente come nelle società che l’Occidente stesso pretenderebbe di “civilizzare” – ridotta a mezzo del piacere altrui, a premio di godimento, a mero corpo plastico.
Le donne di oggi guardano schermi, sfogliano riviste, vagano nel web, venendo continuamente bersagliate da modelli visivi, da corpi meccanici e segnati da una magrezza e da una perfezione disincarnate e innaturali: figure femminili abbaglianti, funzionali ad innescare un confronto mimetico che depotenzia la soggettività delle donne in carne e ossa e, così facendo, la tacita, la disciplina.
Bruciare le immagini, rifiutarsi di guardarle, evitare d’acquistare capi e prodotti che a tali immagini ricorrono e s’ispirano: solo così le donne di oggi potrebbero, in qualche modo, dare inizio alla loro rivoluzione. Una rivoluzione autentica e pacifica che porterebbe al tracollo dell’industria commerciale e culturale che piega il femminile all’apparire, che vuole un femminile marginale politicamente e culturalmente, escluso e relegato nell’impossibilità di agire e di pensare.
«Io sono ben più di ciò che si vede», è questo che le donne dovrebbero ripetere a se stesse e agli altri, infrangendo, col coraggio del rifiuto, il paradigma fantasmatico e astratto dell’apparenza e del dominio che da secoli le riduce ad oggetti di carne, che hanno per scopo la sollecitazione incessante del desiderio altrui.
Lo smarrimento dell’identità viva e soggettiva nel virtuale, la perdita della coscienza di sé, sono prodotti intenzionalmente da una tecnologia di potere, che ha per obiettivo lo smantellamento delle certezze interiori, così che l’uomo – maschio o femmina che sia – rinunci alla libertà di scelta e, dunque, al pensiero in quanto coscienza viva. Il pensare, del resto, è già azione, per questo la libertà di parola è oggi temuta come la più grande forma di sovversione e disobbedienza.
Il potere biocapitalistico, mutatosi camaleonticamente in potere virale, penetra così nell’intimo dell’individuo, nel suo sentire, nel percepire, nel pensare, riproducendosi dall’interno e soppiantando, passo dopo passo, l’essenza sacra e irriproducibile dell’uomo. Un’essenza di per sé viva e cosciente, fondata sulla capacità di discernimento che produce azioni. In tal senso, l’esempio più lampante della perversione dell’attuale dominio, lo vediamo proprio nelle diseguaglianze di genere: mai come ai nostri giorni, anche nei paesi più evoluti, le donne sono state relegate al dover-essere-merci-che seducono, a prodotti di consumo eternamente giovani. Tale inganno si produce mediante la sollecitazione di una finta libertà che, essendo esclusivamente sessuale e corporea, è andata a vantaggio esclusivo del dominio e del biocapitalismo consumistico. Mai come attualmente le immagini hanno avuto tanto potere sulle donne e tanta facilità nell’essere divulgate grazie agli strumenti tecnologici in nostro possesso. Il dominio odierno e le sue tecnologie disciplinari prevedono, dunque, che l’individuo stesso si auto-assoggetti grazie all’interiorizzazione di imperativi sociali che si presentano in veste di una finta libertà, capace di camuffare, con la bellezza e con valori etici svuotati, la propria perversa natura, animata soltanto dalla sete di obbedienza. Le immagini, così, non sono più simboli che rimandano ad un significato, anche sovversivo. Esse si fanno adesso mezzo, strumento, utensile, tecnologia di potere capace di avere presa sulla psiche del soggetto, allo scopo di riplasmarne l’identità, amplificandone lo sradicamento e la fluidità. L’individuo manipolato, difatti, non sa più chi è e, preda dell’incertezza, si piega. Niente, al pari delle immagini mass-mediatiche e virtuali, riesce nell’intento degradante di svuotare l’interiorità degli individui, per sostituire ad essa surrogati commerciali. La psiche del soggetto contemporaneo si fa dunque oggetto di scambio, merce da comprare e vendere.
Il potere contemporaneo, che ha nelle donne uno dei bersagli privilegiati, agisce dall’interno, viola e divora la privacy dei singoli, penetrando nella loro intimità per riplasmarne i desideri, la volontà, la libertà e il modo di pensare e di pensarsi. In tal senso, alla donna si chiede di esibirsi come merce, come oggetto da possedere e seducente, rinunciando alla propria identità autentica. Il potere delle immagini supera perciò, di gran lunga, quello della coercizione classica, poiché la forza attivata dall’immaginazione e della virtualità riesce a ricostruire i desideri, adattando con violenza la realtà concreta – con i suoi limiti – alla perfezione idealizzata dei modelli visivi. Protagoniste degli spot pubblicitari, come delle pagine delle riviste e del web, sono giovani donne con un corpo perfetto e tale da suscitare, nello spettatore passivo maschile, un desiderio sessuale, mentre nel pubblico femminile invidia mista a emulazione. Nel pubblico femminile, del resto, il paragone con le dee di plastica degli schermi non può non attivarsi: posta davanti a tanta beltà, la persona comune si sente del tutto inadeguata, incompleta, incapace di essere all’altezza di ciò che la società le richiede.
La bellezza che, assieme alla salute, viene esaltata come un valore etico all’interno degli odierni meccanismi di mercato, ha l’aspetto dell’eterna giovinezza, di un femminile corporeo ma disincarnato, poiché epurato da ogni difetto fisico. La donna promossa dal consumo biocapitalistico, ha quindi le sembianze di un oggetto in posa, di un soprammobile raffinato a cui manca completamente la vita. L’esser-morti, il non-possedere-un’interiorità, costituiscono difatti gli elementi predominanti nella retorica mercificante della donna. Una retorica che unisce immagini, tecnologia e mercato, celando una volontà politica di esclusione del genere femminile da tutto ciò che è partecipazione pensante, azione e consapevolezza. La donna non deve esistere dal punto di vista della vita interiore, ma deve darsi-al-mondo, offrirsi ad esso come simbolo. Quest’ultimo costituisce l’essenza del potere di morte che le immagini esercitano sul femminile e, di rimando, sul maschile. Il simbolo che le donne di oggi incarnano, e per il quale sono chiamate ad immolarsi rinunciando alla propria specificità ed alla gioia di vivere, è l’obbedienza. La giovane perfetta e bellissima che sfila sulle passerelle, o che anima gli spot pubblicitari, è qualcuno che ha obbedito perfettamente agli imperativi odierni, che vogliono un femminile ripiegato interamente sul proprio corpo, totalmente esteriorizzato ed estetizzato, ma privo di pensiero e anima. Il simbolo dell’obbedienza, esibito da copri modellati ad hoc, si lega, così, all’eterna giovinezza, altro mito della biopolitica contemporanea, dell’Occidente industrializzato e della Kratoteconologia.2 Il nostro mondo, difatti, concepisce come tabù sia l’invecchiamento, che la libertà di coscienza e di pensiero, e la donna – soggetto socialmente più fragile, perché piegato da secoli dal dominio – è il terreno fertile al quale applicare, in primis, tale disciplinamento.
La bellezza, seducente o androgina3, esaltata dalle immagini odierne, dall’industria della moda, dal mercato, dai modelli estetici, cos’altro è, in fondo, se non un richiamo fanatico all’obbedienza ed all’eternalizzazione della gioventù?
Il peccato d’invecchiare, lo stigma che tale fase della vita rappresenta al giorno d’oggi, si legano all’idea produttivista che concepisce l’ultima età della vita come un peso sociale di cui doversi sbarazzare. In tal senso, la contemporaneità biocapitalistica e kratoscientifica, assetata com’è di progresso, di lotta contro la natura delle cose, di capovolgimento delle leggi biologiche e di efficientismo, non può che odiare i fragili, colpevoli d’incarnare il limite invalicabile della mortalità. Quest’ultima costituisce proprio la maggior paura che il progresso kratoscientifico intendono esorcizzare, proponendo corpi plastici e fluidi, che si sottopongono a continui interventi di chirurgia per non appassire e all’ingegneria genetica per non tramontare. L’obiettivo del nostro sistema-mondo pare essere, così, proprio quello d’invertire le leggi di natura, per fare dell’uomo l’essere capace di capovolgere il corso del tempo e di smontare la logica ciclica della nascita e della morte. Tale obiettivo non può che venir raggiunto mediante l’obbedienza e con una fiducia totale verso il progresso tecno-scientifico e bio-medico, a cui l’intera società, l’etica e la politica si sono ormai votate.
E se la morte non fa più parte delle leggi di natura, del normale corso degli eventi, essa è concepita adesso come pecca, come errore della biologia e della genetica ed è contro di essa che occorre intervenire. Tuttavia, la promessa che l’eternità si realizzi su questa terra, agendo direttamente sulla biologia di quel corpo che consente la vita e che la toglie, non si rivolge a tutti, ma esclusivamente alle classi dominanti, ai cittadini obbedienti e disposti a credere fideisticamente e ciecamente alle promesse della Kratoscienza che, per realizzare i propri progetti, deve prima ottenere un consenso coatto e basato sull’asservimento generale ad un potere-sapere salvifico. Eppure, il Novecento c’insegna che proprio le ideologie di perfezione – ideologie che pretendono d’intervenire sul corso della natura e di sovvertire persino la legge morale che colloca l’uomo entro la ciclicità cosmica e che lo radica all’altro in una relazione di cura – producono sistemi di morte capaci di legittimare qualsiasi atrocità sulla base di progetti deliranti d’immortalità terrena e sulla base di un bene supremo, che deve realizzarsi su questa terra per mano dell’uomo.
Note al testo
1 Di recente, nei paesi più industrializzati e benestanti, si registra un aumento di quella che viene definita “Sindrome di Grimilde”, ovvero la tendenza, da parte di un numero crescente di donne, a ricorre alla chirurgia estetica e plastica per correggere inaccettabili difetti fisici e imperfezioni. La caratteristica più interessante di quella che è ormai una vera e propria nevrosi sociale di genere, è che le dirette interessate, nonostante i continui interventi di chirurgia, restano perennemente insoddisfatte, continuando a concepirsi come imperfette e reiterando, fino all’esasperazione, la trasformazione di sé. L’identità psico-corporea si fa così plastica, fluida, instabile.
2 I termini Kratotecnologia e Kratoscienza sono stati coniati, per la prima volta, nell’opera “Due saggi dirompenti”, Divergenze (2022).
3 Si noti la tendenza, in aumento, ad associare e riportare la femminilità ad un modello androgino, incrementato attraverso l’esaltazione dell’ideale della magrezza (sinonimo di bellezza nelle donne) e di una sessualità fluida. In tal senso, soprattutto nel mercato della moda, il corpo femminile, oltre a subire continue sollecitazioni per incarnare una bellezza priva di difetti fisici e d’invecchiamento, viene ora assimilato al modello maschile grazie all’esaltazione della magrezza, simbolo ed emblema massimo del disciplinamento. L’esaltazione della magrezza, difatti, altro non è che l’apoteosi dell’obbedienza che s’incarna nei corpi che a tale imperativo si piegano. La donna, identificata con le proprie membra e indotta alla magrezza androgina o all’eterna giovinezza, si configura, così, come il bersaglio prediletto dagli odierni meccanismi disciplinari, che piegano la coscienza, insinuandosi nella psiche per riplasmarla.
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Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze filosofiche a Firenze, lavora quindi come curatrice, autrice di testi d’arte e giornalista. Scrive per varie riviste letterarie, insegna Storia e Filosofia presso un liceo ed è collaboratrice d’ateneo come docente di Storia della filosofia contemporanea. Co-direttrice della galleria d’arte Ambigua di Arezzo, è autrice di sillogi poetiche, redattrice del magazine italo-francese «La Bibliothèque Italienne» e responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie.