A partire da “Lo spazio delle donne” di Daniela Brogi

Tutta una questione di spazi

Quando si discute di questioni di genere, si finisce sempre col parlare di spazi. Del resto, lo spazio condiziona la nostra esistenza a partire dalla definizione di appartenenza: da dove vieni? Dove vivi? Quale posizione professionale occupi?

Lo spazio che abitiamo, in senso letterale o metaforico, misura il nostro potere nello sguardo dell’altro. Le donne, estromesse dal perimetro del discorso pubblico, segregate all’interno di una dimensione domestica resa asfittica dall’invasione delle aspettative sociali, si sono storicamente prodigate (e spesso siamo tuttora nelle condizioni di avvertire la stessa esigenza) nella ricerca di nicchie “tutte per sé”, al cui interno proclamare lo stato d’indipendenza. Spazi per esprimersi come soggetti creatori e non come oggetti della narrazione altrui: la room of one’s own di Virginia Woolf, Lo studio di Alice Munro. Spazi in cui nascondersi per evitare le pressioni di un mondo ostile: il baule della Massaia di Paola Masino. Spazi da colonizzare per avere voce in capitolo sull’attraversamento dei confini: il «pezzettino di giardino tutto mio» di Sibilla Aleramo.

È interamente dedicato al tema Lo spazio delle donne (Einaudi 2022) di Daniela Brogi, che a meno di un anno di distanza dalla prima pubblicazione può già configurarsi come un testo fondamentale, un caposaldo della saggistica contemporanea. Per intraprendere il viaggio, Brogi individua cinque punti di partenza: il recinto, in cui le donne sono state confinate per millenni, escluse dai luoghi di formazione e di lavoro; l’abisso, la dimensione sommersa della memoria in cui si sono collocate le esperienze femminili rifiutate o rimosse dalla storia;  l’interstizio, spazio “rotto”, “scollato” in cui si è inserita la voce delle identità marginali nel coro sociale; la “mappa”, ovvero la rappresentazione cartografica di un “modello possibile del mondo” che tenga conto anche delle esperienze escluse da canoni patriarcali; infine il “fuori campo”, relativo a ciò che esiste ma non viene mostrato, perché fuori dall’inquadratura storicamente dominante.

 

L’amante di

La disamina di Brogi scorre su un doppio binario: oltre agli spazi che le donne non hanno potuto occupare, ci sono quelli che hanno occupato. Ad esempio, la dimensione della straordinarietà. Quella delle matte, delle puttane, delle vergini suicide, delle dive: donne rese celebri in vita e consegnate alla fama post mortem dalla loro indole eccezionale, da una biografia sui generis. In altre parole, outsider, come se l’essere ricordate per i propri meriti fosse incompatibile con l’esistenza femminile, tranne che in casi eccezionali. Ricordare solo le unicità è un paradosso funzionale proprio al mantenimento dello status quo: riconoscere l’eccezionalità non riporta a galla la storia delle moltitudini.

E poi c’è l’altro spazio, quello di funzione di soggetti maschili. Sono frequentissimi i casi in cui il ruolo ha sostituito il nome proprio nella memoria (a partire da quella letteraria). Non soggetti, genitivi di un soggetto maschile. Donne relegate nell’ombra dalla luce degli oggetti d’amore che loro stesse avevano aiutato a brillare: Amalia Guglielminetti, l’amante di Gozzano. Donne condannate all’oblio dopo essersi a lungo spese per la tutela della memoria di altri: Paola Masino, la moglie di Bontempelli. E la lista di casi esemplari potrebbe continuare a lungo.

Esperienze non cancellate, ma svuotate di significato. Definizioni insidiose, perché entrano nel vocabolario comune conficcandosi nell’orecchio e ce le ritroviamo sulla lingua quando la sorveglianza razionale si addormenta.

 

Daniela e le altre

Brogi quindi intercetta diverse vicende biografiche femminili. In altri termini, diventa una “scrittrice di scrittrici”, ripercorre i passi delle nostre antenate, molte delle quali hanno a loro volta tirato fuori dall’oblio altre donne. Non a caso l’autrice cita, fra le altre, la biografia di Charlotte Brontë scritta da Elizabeth Gaskell e quella di Matilde Serao scritta da Anna Banti. Ma da dove nasce questo amore, che prende forma nel desiderio di studio, dell’altra? Siamo fatte della stessa sostanza di chi ci ha precedute, affrontiamo le scorie dei conflitti che le nostre antenate hanno combattuto. Le artiste rimosse della memoria collettiva per via della discriminazione di genere mordono le nostre coscienze per far sì che la loro voce resti almeno come eco: questo mi pare si possa dare per assodato. Ma non credo che il fenomeno vada inquadrato esclusivamente nell’ottica del mandato storico, probabilmente a monte c’è anche una esigenza attualissima di specchi. In effetti, limitandoci alla situazione più diffusa in Italia, se ci guardiamo intorno mentre siamo in formazione, spesso ci scopriamo circondate da altre come noi. Ma se rivolgiamo lo sguardo verso l’alto, com’è d’abitudine per chi sta per iniziare una carriera, ci rendiamo conto che le donne ai vertici a cui potersi ispirare sono ancora poche. Alla fine del paragrafo, Brogi immagina le domande di una giovane donna che sta per intraprendere la scalata: “Dove sono  quelle come me? Chissà quante volte gli occhi di una ragazza, anche senza saperlo, cercano soluzioni a questa domanda”.

È così. Siamo affamate di storie e di modelli.

 

La banalità del bene

“La soluzione alla mia vita mi venne in mente una sera mentre stiravo una camicia. Era semplice ma audace. Mi presentai in soggiorno dove mio marito stava guardando la televisione e dissi: – Ho pensato che dovrei avere uno studio”.

Alice Munro, Lo studio

 

Molta della saggistica femminista dà per scontati dei presupposti metodologici e un bagaglio di informazioni che vanno invece recuperate e spiegate in modo “semplice ma audace” ai lettori. Brogi è un ottimo modello anche da questo punto di vista: è una maestra della chiarezza.

Il femminismo non è una parolaccia, va precisato senza mezzi termini. Non è una malattia che colpisce donne frustrate. Non è il contrario di maschilismo, semmai di sessismo. Il femminismo è una visione, complessa e multiprospettica, del mondo. E spesso è anche il contrario di ignoranza. Perché non aver letto Carla Lonzi, autrice riconosciuta a livello mondiale, non può più passare per mero disinteresse. Dobbiamo avere il coraggio di dircelo: è questione di lacune nel sapere, di buchi neri nella formazione. E sollevare il problema, schierarsi a favore dell’equità, non significa cancellare il preesistente (anzi, è proprio contro la cultura della rimozione che si scende in campo), ma allargarlo: il segno dell’inclusione è il più, non il meno.

 

Intersezioni

“Io sono Giorgia

Sono una donna

Sono una madre

Sono cristiana”

 

Per la verità, Brogi non parla di femminismo ma di femminismi, a indicare la pluralità di approcci filosofici ed esperienze di militanza che può contrassegnare l’essere femministi oggi. Allo stesso modo non parla mai dell’ “identità femminile” come di un’entità monolitica, non si chiude in un rigido binarismo di genere che si è già rivelato friabile sul piano antropologico («trattare le donne non come fenomeni da chiudere in etichette, e nemmeno in quanto donne e basta, ma come identità sempre in movimento e in trasformazione»). È un’autrice aperta, amante della complessità, del pluralismo, di una cultura del rispetto sociale e politico (una femminista, per l’appunto). La tutela di valori come l’uguaglianza e il rispetto delle minoranze (numeriche e non numeriche) è un terreno d’incontro, un campo comune a molte battaglie da combattere con urgenza. Dispatriarcarsi, dicono le femministe sudamericane. Il patriarcato del resto rimanda, a partire dal livello lessicale, non solo alla figura del padre, anche a quella della patria. Non è certo un caso che spesso chi è in prima linea nella battaglia per restaurare anacronistiche forme di patriottismo si schieri anche della parte di una tradizione misogina che resta ancorata a una valutazione del femminile basata sulla prestanza dell’utero e sulle professioni di fede. In Italia lo sappiamo molto bene.

 

Lo spazio per sgomitare

Già dal titolo, il saggio si presenta come una dichiarazione d’intenti. Ambizioso nella genesi e brillante negli esiti, Lo spazio delle donne è pensato per una lettura agile («si potrà leggere in un pomeriggio di studio come di festa»), ma la brevitas del testo non deve trarre in inganno: non va associata a un desiderio di eccessiva semplificazione, piuttosto alla densità della penna di Brogi (che, in margine, ci ricorda che non è necessario infiorettare la lingua per comunicare contenuti potenti) e alla compattezza che il saggio riesce a conservare pur offrendo moltissimi spunti. Anche perché, come precisa l’autrice stessa, i numerosi riferimenti disseminati nel testo sono concepiti come “indizi”, inviti al lettore a proseguire il percorso di conoscenza attraverso una autonoma operazione di ricerca e riscoperta.

Ne ho terminato la lettura qualche tempo fa, poi l’ho lasciato a sedimentare dentro di me, perché è un testo che continua a espandersi anche a lettura ultimata. Un libro che va letto per far partire il cambiamento, per far sì che il processo di riappropriazione degli spazi parta dalle nostre case, anzi dalle nostre librerie. E per accogliere l’invito implicito che affonda le radici in una dimensione storica ma bussa al presente: non lasciamoci inabissare, sentiamoci libere di sgomitare.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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