di Emanuele Grittani
L’ultimo lavoro di Guadalupe Nettel rivendica già nel titolo la sua dote di
diversità, quella dei figli cresciuti in solitudine, e riporta in auge un modo di
scrivere in controtendenza rispetto all’indulgenza della editoria
contemporanea. Evitando di strizzare l’occhio a una scrittura
cinematografica, “La figlia unica” (La Nuova Frontiera, 2020) è il romanzo di
una autrice verace che con il suo stile chirurgico e puntuale concede una
speranza ai lettori che chiedono di scovare quell’esemplare protetto in via
d’estinzione. I libri.
All’interno del testo, la scrittrice affronta con consapevolezza – e una
sfumatura di rabbia a tratti diluita in rassegnazione – lo spettro delle
emozioni legate al tema della maternità. Posandosi sul vivido punto di vista
femminile, nonostante le concezioni divergenti, e su come le donne vengano
(spesso) abbandonate alla condizione di genitorialità, in preda all’epidemia
di idee che la gestazione sia un lavoro per uno.
Laura, la protagonista, difende ad ogni costo la propria indipendenza,
proteggendola fino a creare una postura protettiva che le impedisce di
mantenere legami che resistano al tempo. Se non con una persona: Alina,
amica e compagna prima, madre e sposa poi. Nonostante Laura viva
inizialmente lo scostarsi dalla militanza femminista di Alina come un
tradimento, tenderà puntuale ad affezionarsi alla sua condizione e di
conseguenza a interrogarsi sulle proprie scelte, finché in uno dei controlli di
routine antecedenti alla nascita della piccola Ines sarà proprio la morte a
peccare di puntualità, presentandosi in anticipo. Una microcefalia lascia
presagire che la bambina nascerà morta – queste le testuali parole
all’interno del romanzo, che limano ogni sorta di contraffazione –, senza
poter respirare, a meno che la gravidanza non venga immediatamente
interrotta evitando di protrarre ulteriori schegge di rimpianti. Al contempo
Laura si lega alla sua vicina di casa Doris, che trascina con stanchezza il
proprio ruolo di madre nei confronti di un ragazzino in preda a costanti
isterismi e a improvvisi attacchi schizofrenici causati dall’assenza della figura
paterna.
Tramite l’animo lucido ma sensibile di Laura, la Nettel sviscera una
materia denso di significato, dissacrandola fino a smembrarla per mostrarla
nella sua piena vivisezione. Il destino delle tre donne sarà affastellato da
inquietudini diverse, dolcemente spogliate per avvicinare il più possibile le
paure alla purezza. La protagonista tenterà di dividersi tra le due conoscenti,
conciliandole con la simpatica invasione di un inaspettato inquilino. Una
coppia di piccioni depositata sul suo balcone, che cova le proprie uova in
totale disinteresse. Per loro lo stesso “nascere” che inabissa le giovani
donne di profonde insicurezze sembra essere solamente una conseguenza
del tempo, tanto da accettare l’adozione naturale da altri nidi come fosse un
processo fisiologico. Già in “Bestiario Sentimentale” (La Nuova Frontiera, 2018) la scrittrice è stata capace di disseminare riflessioni sulla società
servendosi di metafore col mondo animale, e di nuovo in questo romanzo
evoca la primordialità dell’uomo, al pari degli stessi uccelli di cui disdegna il
canto e che invece sarebbe utile osservare come modelli da cui attingere.
« […] Io sono più intrigata dagli uccelli che subiscono il parassitismo.
Fatico a credere che non si accorgano di niente. Secondo me
sanno che quelli non sono i loro piccoli, ma li curano e li assistono
lo stesso. Penso che a un certo punto tutte noi madri ci rendiamo
conto di questa cosa: abbiamo i figli che abbiamo, non quelli che
immaginavamo o quelli che ci sarebbe piaciuto avere, ed è con loro
che dobbiamo fare i conti.»
Mentre parlava, non ho potuto fare a meno di pensare alla sua
bambina e all’atteggiamento eroico con il quale aveva affrontato la
notizia del suo ritardo mentale.
«… A volte i figli ci arrivano senza averli pianificati» ha proseguito
Monica.
«Come se qualcuno depositasse un uovo nel nostro nido.»
Alina sceglie di covare nella propria pancia, come un volatile, ciò che
sembra essere solo un detrito, galleggia tra una meschina speranza e
l’inarrivabile accettazione di una figlia senza respiro. Laura invece instaura
un insolito scherma di protezione con Nicolas – il figlio della vicina Doris –,
che sembra trovare in lei una panacea di stabilità e che consente alla
protagonista di scoprire un maldestro lato di sé stessa ricolmo di
insospettabili premure. Rendendo mamma chi non ha mai tentato di esserlo.
Instaurando il dubbio che il valore che influisca meno sulla parentela sia il
legame di sangue.
Il bisturi che la Nettel affonda mentre scrive apre un penetrante sguardo su
una ferita che sgorga e immette nella discussione sulla maternità una forte
emancipazione al servizio dell’innocenza di chi la esercita. Metafore
soppesate e similitudini calzanti accompagnano il lettore alla conclusione
che a volte la vita decida per noi, a prescindere da ciò che consideriamo
maggiormente importante: la nostra volontà.
Ines a discapito dell’esattezza della medicina ribalta i pronostici e
dimostra i limiti della scienza, scegliendo di respirare, così come può –
incastonata in questa scelta narrativa una discreta razione di ciò che piace
chiamare “realismo magico”, che deve agli scrittori sudamericani il suo più
grande successo –. Nel romanzo prende il sopravvento la ferocia del ruolo
ormai inatteso di madre da parte di Alina che mantiene il passo con l’impeto
di una bambina uscita vincente dal nascondino col destino.
L’abilità e il disincanto della scrittrice governano il resto dell’opera, fino a
dirigersi verso un finale sospeso, in cui due persone in difficoltà si fondono
tentando di assopire il male altrui, come in natura accade agli innesti che
intervengono in soccorso di una pianta per legarla ad un’altra. Con la
semplicità di un richiamo alla terra, a ciò che si può ancora chiamare vita,
“La figlia unica” è un caso letterario che lascia il lettore assuefatto all’incanto
che trascina e che consente di sperare in un orizzonte in cui gli autori mirino
a sussumere la responsabilità alle proprie parole. Guadalupe Nettel – che si
posiziona di diritto in attesa, in fila per il Premio Nobel – lascia sopravvivere
con dosata violenza la lezione che da questa parte della luna ha lasciato il
padrone del blues, con disarmante candore: «E vivrò, sì vivrò. Tutto il giorno
per vederti andar via. Fra i ricordi e questa strana pazzia. E il paradiso, che
forse esiste. Chi vuole un figlio non insiste.»