La freschezza di “Ragazze perbene” di Olga Campofreda

Alcune donne non riescono a contenere tutte le loro moltitudini all’interno del perimetro cui appartengono per nascita. Odorano di randagismo, abilitano la curiosità a stile di vita, e la loro esistenza è un susseguirsi di sconfinamenti. Sono loro le protagoniste delle storie che NN ha scelto di ospitare nella collana di narrativa italiana e straniera dal titolo evocativo “Le fuggitive”: mi pare si tratti di una delle operazioni editoriali più intelligenti degli ultimi tempi, perché chiara negli intenti – mai sottovalutare il potere della chiarezza in un mondo come quello editoriale, che si regge troppo spesso sulla logica della “caccia al nome”, a scapito della valorizzazione delle  idee -, fresca nella proposta, vivace già a partire dall’impostazione grafica.

Della categoria delle “fuggitive” fa parte ovviamente anche Clara, la protagonista di Ragazze perbene di Olga Campofreda, l’ultimo volume della collana, in libreria da qualche mese e di recente presentato al Premio Strega 2023. Clara è una «che corre lontano anche quando sta ferma», una trentacinquenne nata a Caserta,  ma, come ci racconta quasi subito,  quando le chiedono di dove sia originaria, lei risponde “vicino Napoli”, sentendosene sempre un po’ in colpa: e questo stato d’animo mi sembra metonimico della condizione degli spatriati. Intorno ai vent’anni, Clara si è trasferita in Inghilterra, portando con sé il sogno di studiare Scrittura Creativa e una valigia in cui sua madre ha infilato clandestinamente un santino della Madonna dei Nodi. Ora lavora privatamente come insegnante di lingua italiana a Londra, e continua ostinata a rifiutare qualsiasi supporto economico dei genitori, anche se non riesce ancora a permettersi l’affitto di un appartamento dignitoso. In Campania fa ritorno solo per le feste comandate, in quei periodi in cui non teme inopportuni interrogatori perché tutti sono «troppo impegnati a salutare tutti per salutarsi davvero e raccontarsi oltre i formulari delle occasioni». Il romanzo si apre quando Clara sta rientrando a casa per il matrimonio di sua cugina Rossella, che appartiene invece alla categoria delle ragazze perbene a cui allude il titolo (più nello specifico, i panni della ‘brava fanciulla’ li ha «cuciti addosso come un drappo di mitezza e devozione, come del resto la nonna aveva insegnato a tutte le donne della nostra famiglia» e ha placidamente accettato il destino pre-scritto per lei, ovvero «essere esposte sui balconi di casa, sotto lo sguardo dei vicini, per esaltare il buon nome dei nostri padri»). Come da copione, Rossella non ha mai abbandonato Caserta, dove lavora come modella di abiti da sposa e ora è pronta (ma lo sarà davvero?) per convolare a nozze con il fidanzato storico, durante uno sfarzoso ricevimento in cui gli invitati potranno commuoversi sottolineando che “ha sposato il suo primo amore”. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, il conflitto fra i due modelli di femminilità antitetici non sfocia mai in uno scontro aperto, forse perché durante l’infanzia le due cugine sono cresciute come sorelle, e in nessun territorio è più difficile tornare che in quello dell’intimità. Al contrario,  mentre i contorni della barricata vanno sfumandosi, il dialogo tra le due si addensa di sottotesti. Ma l’autrice riesce ugualmente a far implodere il paradigma culturale delle ragazze perbene sviscerandone le contraddizioni, fotografa i tic sociali del perbenismo attraverso uno sguardo dall’ironia corrosiva.

In effetti, fra i molti pregi del romanzo di Campofreda c’è l’obiettivo, pienamente raggiunto, di rinfrescare la narrazione della femminilità millennial, depurandola dai luoghi comuni e anche da quei toni epici che mi pare vadano caratterizzando le storie delle donne legate alla provincia italiana, in particolare meridionale, orientandole verso una rappresentazione di tipo mitobiografico. Qui l’autrice percorre una strada diversa, e ci consegna un ritratto del femminile moderno, autentico, onesto. La storia di Clara è vera perché complessa e complessa perché vera, Clara non è (né desidera esserlo) una eroina, tutt’al più si configura come una posteroina, con tutto il bagaglio di contraddizioni e conti in sospeso con la tradizione che questo comporta. È una donna che controlla ossessivamente la chat di WhatsApp mentre rivendica la propria libertà, che spesso indugia nei what if, che a volte cede alla tentazione di autoconsiderarsi sbagliata. Ma che ha coltivato il suo spirito critico abbastanza da riuscire a prendere le distanze da un sistema tradizionalista che non la rappresenta, di cui anzi si sente in dovere di svelare e affrontare le criticità, anche a costo di rimestare nel sostrato fangoso delle strutture familiari («il matrimonio dei miei genitori è cementato dalla disponibilità di mia madre a mettere da parte se stessa, e non perché mio padre glielo abbia mai chiesto, ma perché sta bene, è così che si fa»).

Ma Ragazze perbene non è – e mentre lo scrivo il mio tono è categorico – un romanzo per sole lettrici. Navigando in rete, ho scoperto che Campofreda è autrice anche di un saggio su Pier Vittorio Tondelli, il che mi ha fatto sorridere, perché ho letto la notizia come una conferma. In veste di studiosi o di lettori, tendiamo sempre a scegliere chi ci somiglia. Credo che le eredità tondelliane influenzeranno ancora a lungo la prosa italiana, prima fra tutte la necessità di raccontare una generazione a partire dal disvelamento del sé. E infatti qui la voce della protagonista del romanzo è corale, nell’io di Clara si annida un noi, nelle sue parole rimbombano i discorsi dei millennials: i nati fra la metà degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, quelli che sono cresciuti con il walkman e le videocassette, che hanno cantato a squarciagola i pezzi di Britney Spears, che non hanno del tutto smaltito i postumi dell’adolescenza («l’adolescenza è un territorio infame da cui nessuno esce mai vivo, e noi non abbiamo fatto eccezione») e che non sono ancora riusciti a trovare un’identità generazionale (e spesso neanche individuale), e forse non la troveranno mai, forse il nostro tratto distintivo è proprio il desiderio insaziabile di continuare a cercarci.  Come ci insegna il passato recente, ci sono molti modi in cui le generazioni possono autosabotarsi. Quella dei millennials si è avvelenata di rassegnazione. Come ci veniva suggerito, non siamo stati choosy. Non lo siamo stati a tal punto che a cambiare le cose non ci abbiamo nemmeno provato: la scelta era tra l’andarsene o il restare cercando di adattarsi alla realtà così com’è, come l’abbiamo ereditata.

Mi pare di udire anche un’eco pavesiana in questo romanzo. Accostamento azzardato, ma ho molto apprezzato il modo in cui Campofreda riformula la topica antitesi letteraria del “paese e la città” in una dicotomia fra non luoghi, metropoli europee, in questo caso Londra, troppo grandi per ritrovarcisi, e luoghi asfittici: la provincia meridionale, in questo caso Caserta, troppo artefatti, troppo asserviti a rituali e formalità per possedere la capacità di accoglienza di una vera casa, luoghi in cui «tutto quello che si fa esiste principalmente perché se ne parli», luoghi in cui il timore reverenziale verso la tradizione, la cui stretta osservanza si presenta come l’unica ancora di salvezza dallo scuorno, diventa «il mantello sotto cui si nascondono le persone restie a cedere le redini dei propri sentimenti».

Le pagine di Campofreda si alimentano di Alba de Cespedes, Virginia Woolf e Simone de Beauvoir (autrici apertamente citate, in cui Clara ritrova la sua stessa insofferenza verso l’ostentata morale borghese e misogina), di Pier Vittorio Tondelli e forse perfino di Cesare Pavese. Ma se da un lato l’autrice può contare su diversi numi tutelari letterari, dall’altro il suo pregio è l’essere rimasta orfana: Olga se n’è intelligentemente nutrita, e poi altrettanto intelligentemente ha saputo uccidere i padri, e ora investe le cose col suo sguardo obliquo non indirizzato da alcuna indicazione di regia. Proprio come la sua Clara, prova a essere sé stessa (e ci riesce). Il che è un grande pregio nell’ambito del mainstream, che è quel mondo in cui se un modello si rivela vincente lo si ripropone in serie, col risultato che le trame si assomigliano troppo e le nuove voci suonano tutte uguali, indistinguibili come quelle dei cantanti dei talent show.

A Ragazze perbene, e alla sua autrice, andrebbe riservata un’attenzione particolare. Che nel sottobosco dell’editoria indipendente ramifichino spesso le poetiche più interessanti è cosa nota, e credo che Campofreda passerà a breve dalla folta schiera delle giovani promesse al territorio ad assai minore densità abitativa delle conferme. Il suo romanzo va letto. Va letto dalle trentenni (e dintorni), per prendere una boccata d’aria fresca e per potersi osservare in uno specchio cartaceo che le rappresenta fedelmente. E va letto anche da tutti gli altri, perché è arrivato il momento di imparare a conoscerci, se non altro per non dover poi confessare di non averci viste arrivare.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


Images are for demo purposes only and are properties of their respective owners.
Old Paper by ThunderThemes.net