Il 5 marzo 2020 esce nelle librerie “Anatomia di un profeta” di Demetrio Paolin.
Ma prima?
Tra novembre e dicembre 2019 sui giornali compare qua e là un trafiletto che racconta a grandi linee di un virus di cui si sta iniziando a parlare in Cina.
A gennaio del 2020 i toni si fanno un po’ più preoccupanti.
A febbraio 2020, mentre la mia vita personale viene sconvolta da quelli che considero intoppi dell’inverno della vita, l’Italia piomba nell’incubo Covid-19.
Il 21 febbraio c’è la prima vittima italiana a causa del Covid. Scopro l’esistenza di un paese che si chiama Vo’ Euganeo. Il virus ha fatto un salto tragico, dalla Cina è arrivato proprio alle porte di casa mentre io inizio a frequentare un ospedale. I libri spariscono dal mio radar.
Pochi giorni dopo esce per Voland “Anatomia di un profeta”. Poi il Veneto diventa zona rossa e chiude i battenti. Poi l’Italia si chiude a notte.
Da quel momento è stato un continuo andirivieni di DPCM.
Ma il libro? O meglio, i libri? I libri usciti in quel periodo? I figli letterari della pandemia? Scritti quando ancora il mondo non aveva avuto a che fare con i virus e i vaccini?
Conosco Demetrio Paolin, nel senso che so chi è, ci siamo parlati in qualche occasione, ma non posso dire di sapere cosa gli passa per la testa. Ho letto alcuni interventi che ha scritto su Facebook per accompagnare l’uscita e il primissimo cammino del suo Geremia.
Cosa traspariva dalle sue parole? Posso davvero saperlo o posso immaginarlo?
Lo immagino, visto che stiamo parlando di libri.
Allora immagino di aver colto paura, frustrazione, rabbia, delusione, rassegnazione. Quando la realtà ti mostra una simile recita a livello mondiale, cosa può fare uno scrittore per uscirne vivo con un’opera a cui ha dedicato quattro anni di vita?
Nulla.
Immagino di nuovo. Immagino che le vendite non siano andate bene. Immagino che la pandemia abbia fagocitato “Anatomia di un profeta” e, assieme a lui, anche molti altri libri.
Inevitabile.
Eppure.
A me la cosa ha lasciato l’amaro in bocca. Non mi è sembrato giusto, se di giustizia si può parlare. Ho sempre pensato a questo libro anche se non lo avevo ancora letto. L’ho comprato praticamente subito, ma l’ho tenuto lì. Perché ho pensato al profeta di Demetrio così spesso? Perché il romanzo di Paolin mi ricorda di come, per quanti sforzi tu possa fare, può arrivare la tempesta e distruggere tutto. Poi, servono anni per rimettersi in piedi.
Dopo tre anni ho capito di essere nelle condizioni di leggere “Anatomia di un profeta”.
Di cosa parla il libro di Demetrio Paolin?
Patrick, un ragazzino di 11 anni (guardo mio figlio e penso, no, non un ragazzino, un bambino) si suicida bevendo diserbante. La morte arriva dopo un’agonia di 9 giorni che termina l’ultimo dell’anno. Questa è la trama, non dobbiamo dire molto altro per raccontare a un possibile lettore questo libro.
Marco Franzoso, nel suo “Il grande libro della scrittura” dice che tutte le più grandi opere letterarie possono essere descritte in meno di 25 parole e io sono d’accordo con lui.
È il narratore a parlarci di Patrick, del suo gesto atroce, un narratore che risponde al nome di Demetrio. Ma Demetrio, il narratore, fa anche altro. Nel raccontarci di Patrick, ci accompagna in un territorio denso di fede in cui l’ombra ingombrante del profeta Geremia ci guarda con occhi fiammeggianti (è così che vedo io un profeta, un uomo in grado di incenerirti con gli occhi mentre la sua lingua schiocca sotto il suono delle parole che possono segnare un destino).
Mentre scrivevo le mie impressioni su questo libro non ho mai utilizzato il termine “romanzo”. Non ho mai detto “il romanzo di Paolin” e non l’ho fatto perché ho come l’impressione che la definizione, per quanto ormai si tenda a mettere sotto l’etichetta di romanzo quasi tutto quello che viene pubblicato, gli stia stretta. È lo stesso autore (ma è poi davvero l’autore a dirlo) che nella prima Appendice al testo a dirci chiaramente che quella che abbiamo letto è un’opera ibrida. Ci mette anche in guardia dal considerare tutto reale o realmente accaduto e io non so se fidarmi perché quanto ci viene detto, ci viene detto sempre all’interno di un’opera letteraria. Cosa è vero e cosa no? Per me, leggendo, non esiste questa distinzione, fa tutto parte della letteratura, in questo caso del progetto di un’opera.
“Anatomia di un profeta” è un’opera letteraria che muta forma mano a mano che passano le pagine. Sa essere poema e poesia, sa essere romanzo puro, sa correre sul filo dell’auto fiction, sa fare molte cose ed è proprio quando sono arrivato a questa conclusione che mi sono reso conto di provare un vivo fastidio a pensare che questo libro abbia ottenuto un successo di vendite molto minore di quello che meritava.
Non c’è alcun dubbio. Dal punto di vista della critica, “Anatomia di un profeta” ha ricevuto più di un plauso, ma la sua diffusione nelle cerchie del lettore medio mi è sembrata scarsa.
Io vorrei provare a spiegare qui con parole semplici per quale motivo penso che il libro di Paolin meriti di essere preso in seria considerazione.
Come già detto in precedenza questo libro contiene più anime. Paolin riesce a fare una sintesi tra queste anime. Riesce a mettere sullo stesso piano forme e sostanze diverse tra loro e quando lo fa è evidente che avesse un disegno in testa. Demetrio Paolin è assolutamente consapevole di aver tentato di creare un’opera complessa, e in certi momenti me lo sono proprio immaginato mentre scriveva, l’ho sentito dire tra sé e sé: ecco a te lettore, vediamo sei hai buoni denti per masticare questo pane.
Da un lato abbiamo la sostanza palesemente biblica, il libro di Geremia, tratto dall’antico testamento, un testo che da molti viene considerato quasi illeggibile e che Demetrio, il narratore, commenta passo passo mettendolo in relazione con il tragico gesto di Patrick. Ne fa un’esegesi puntuale, lo traduce in un linguaggio comprensibile, ma è qui che lo scrittore fa un’altra sintesi. La fa nel momento in cui utilizza in modo massiccio le note a piè pagina. Le note di questo testo, come il testo stesso, hanno nature diverse. In alcuni casi fungono da vere e proprie spiegazioni del testo scritto, servono a raccordare il narrato al testo di Geremia; in altri casi invece ci fanno piombare all’interno di un disegno mentale che sembra ereditato da David Foster Wallace, un David Foster Wallace che è presente anche quando il narratore sembra sgretolare a poco a poco ogni pensiero per renderlo sempre più piccolo, per arrivare a conoscere l’inconoscibile, per arrivare a quella che potrebbe essere la più piccola parte del pensiero, un quanto del pensiero; l’altra natura della note è anche quella di portarci verso la meta-narrativa, nel farci uscire dal testo (in questo caso sto pensando alla nota 64 a pagina 91. Dopo aver raccontato un episodio che ha a che fare con un tentativo di suicidio, il narratore ci mostra come la persona che avrebbe commesso il fatto in realtà neghi di essersi mai trovata in quella situazione, anzi, dice al Demetrio narratore che lui, proprio perché scrittore, doveva aver avuto bisogno di un episodio del genere per giustificare ciò che stava scrivendo”.
Eh sì, l’ombra del suicidio è sempre presente. Non solo perché Patrick lo ha commesso, ma anche perché ne vengono citati altri lungo il racconto, penso a David Foster Wallace, penso a Chris Cornell.
Il suicidio e le parole di Geremia instaurano un rapporto, un dialogo. E io non so bene cosa pretenda da Geremia il narratore, non so se cerchi di giustificare agli occhi del mondo la perdita di Patrick o se voglia consolare sè stesso, se voglia trovare una modalità per uscire dall’ossessione che abita il suo cervello. Se voglia perorare la causa di Patrick davanti all’Altissimo. Non so se attraverso le parole di Geremia il narratore cerchi di dare un senso al mondo, alla perdita e a sé stesso. So però che Demetrio Paolin, questa volta lo scrittore, ha scritto un’opera che sfida il lettore, che forse pretende un lettore di altissimo livello (e questa è poi la ragione per cui io posso aver colto solo fino a un certo punto le trame della scrittura di “Anatomia di un profeta”). Ha scritto un’opera di una complessità unica che, a mio parere, se proprio non dovesse riuscire a trovare posto tra gli scaffali del lettore occasionale, dovrebbe trovare posto almeno nell’ambito universitario. Quella di Paolin è un’opera che andrebbe studiata. Se quella del profeta è anatomia, sul libro di Paolin andrebbe fatta un’autopsia critica che ci consenta di capire fino in fondo quanta parte del tentativo dell’autore è andata a buon fine.
Paolin ha provato a fare qualcosa di diverso, di nuovo, di ambizioso, di difficile, di respingente. Il fatto che la pandemia si sia messa di traverso non ha giocato a suo favore, mi sembra che l’ingiustizia, nel caso di “Anatomia di un profeta” stia tutta qui: non c’è stata partita, non è nemmeno iniziata.