Che Tempo di uccidere risulti atipico rispetto ai canoni letterari degli anni in cui è stato pubblicato è cosa nota. I moduli narrativi prescelti da Ennio Flaiano (il carattere allusivo e polisemico dell’opera ne rappresenta forse la caratteristica principale) non ne hanno agevolato la comprensione storica. In aggiunta, nel 1947, ovvero nel pieno del periodo di transizione dal tramonto della retorica del ‘posto al sole’ alla fase di avvio del processo di decolonizzazione dell’Africa (che si concretizzerà a partire dalla fine del decennio successivo), lo scenario coloniale non aveva ancora conquistato uno spazio letterario nella produzione in prosa italiana.
La genesi editoriale di Tempo di uccidere è stata raccontata da Flaiano nel 1957, in un’intervista per Il Mondo in ricordo dell’editore Leo Longanesi:
Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e di Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”. E così la parola di Longanesi, quel suo fare sbrigativo con cui sapeva mettere l’arte sul piano degli affari e viceversa, mi avevano ormai impegnato a un duro lavoro di esemplificazione delle mie idee, che probabilmente non sapevo fare. Ma pensare di illudere Longanesi mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere. Così cominciai a scrivere e i primi di marzo gli mandai un manoscritto che stampò.
Flaiano spiega la rapidità della stesura del romanzo (si passa dall’ideazione alla distribuzione nell’arco di soli tre mesi) in ragione delle pressioni dell’editore. In realtà, è probabile che l’autore avesse già concepito, almeno parzialmente, il suo progetto narrativo molto prima di discuterne con Longanesi: lo testimonia l’esistenza di un ‘diario di viaggio’ redatto da Flaiano durante la sua permanenza nella colonia africana (intitolato Aethiopia. Appunti per una canzonetta, oggi presente in Appendice in quasi tutte le nuove edizioni di Tempo di uccidere, che si configura una sorta di ‘avantesto’ del romanzo) e lo conferma la scarsa entità delle modifiche apportate dall’autore al testo della prima edizione in occasione delle ristampe. Chiarisce bene questo aspetto Umberto De Franciscis, intimo amico di Flaiano, che nella sua recensione per L’Avanti definisce Tempo di uccidere «tipica opera di pigro, sognata e limata, prima di essere scritta di getto e incastrata nella cornice del racconto».
Il romanzo, a volerlo richiamare alla memoria così in sintesi da rischiare di banalizzarlo, narra la bizzarra avventura di un tenente italiano, che, dopo aver ucciso per errore un’abissina, affronta un’odissea allucinata durante la quale si ritrova in situazioni sempre più assurde che lo portano a uccidere ancora e a nutrire dei dubbi sulla possibilità di aver contratto la lebbra, finché non viene curato da un ascaro e riesce infine a tornare in Italia.
L’ambientazione africana, e più nello specifico coloniale, che ha segnato la parziale sfortuna del romanzo alla sua uscita, è lo stesso aspetto oggi più di frequente recuperato e analizzato dalla critica letteraria. Del resto, la ‘poetica paesaggistica’ è una delle componenti più interessanti dell’opera. Appena arrivato in Etiopia, l’autore commentava nel diario:
Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: Porca miseria! Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrina. Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva di interesse. L’hanno preso in giro.
A più riprese Flaiano fa riferimento alla delusione dei militari occidentali nei confronti del paesaggio etiopico: i soldati italiani sbarcano in Africa con un bagaglio di aspettative alimentate dall’industria culturale e si ritrovano invece calati nello scenario di una modernizzazione sregolata e frettolosa che uccide subito l’illusione di essere giunti in una «terra ideale». Partendo da questa premessa, ci si aspetterebbe che le descrizioni paesaggistiche del romanzo siano del tutto fedeli al principio di realtà, e invece l’autore calca spesso l’accento sull’aspetto surreale e fittizio dell’ambiente naturale (ad esempio: «Il caldo era spaventosamente aumentato e gli alberi spaventosamente cresciuti, ma sempre più di cartapesta, sempre più vecchi e untuosi»). Più che come una realtà concreta, l’Africa si presenta come una trasfigurazione fantastica, a cui l’autore attribuisce diverse funzioni narrative (il che spiega le differenze di approccio alla descrizione del paesaggio tra il diario e il romanzo).
Nelle interviste in cui commenta Tempo di uccidere, Flaiano crea sempre una correlazione, più o meno esplicita, tra l’ambientazione esotica e la libertà narrativa. Nell’intervista sopra riportata, in cui illustra la genesi editoriale del romanzo, l’autore associa «l’Africa di Erodoto e di Solino» alla possibilità di narrare una «storia fantastica», quindi, parafrasando, alla possibilità di aggirare il diktat del realismo, che Flaiano considera tanto onnipresente nella narrativa contemporanea quanto opprimente. In una delle sue ultime interviste, per Aut, l’autore torna sullo scenario africano del romanzo e paragona la sua Etiopia all’Italia di Shakespeare:
Avevo messo in quest’Africa, leggermente onirica, una vicenda, esattamente come – scusi il paragone – Shakespeare ambientava i romanzi e le commedie d’amore in Italia, come una carta da parati, dove si svolgevano delle scene araldiche, dolci, ma in cui non c’era responsabilità realistica del suo luogo.
Il paragone non andrebbe preso troppo alla lettera – Shakespeare non conosceva l’Italia, mentre Flaiano aveva fatto esperienza diretta della colonia etiopica, e l’influenza della vicenda autobiografica emerge con prepotenza nei frequenti parallelismi tra il diario e il romanzo – ma è ugualmente indicativo: grazie alla dislocazione della storia in un ‘altrove’ lontano dalla terra natale, l’autore può venir meno alle «responsabilità realistiche» dei luoghi e creare quell’atmosfera «leggermente onirica» che è una delle principali caratteristiche del romanzo.
Inoltre, tutto in Tempo di uccidere è allo stesso tempo soggettivo e simbolico: la descrizione dei luoghi è filtrata dallo sguardo del protagonista e ne rispecchia gli stati d’animo. Questo elemento è evidente in partcolare nell’episodio della boscaglia: lì “l’anima dell’Africa” è una vera protagonista della narrazione, e si riflette ora negli animali umanizzati che seguono il tenente (la iena che fuma, il camaleonte «in abito da sera»), ora nel gioco di specchi tra Mariam e il paesaggio (ad esempio la donna «Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza»), ora nei fruscii (reali o immaginari) che disturbano il sonno della coppia.
La boscaglia, che il tenente paragona all’Eden, è inizialmente tratteggiata secondo il topos del luogo selvaggio e incontaminato (la variante esotista del locus amoenus), ma il richiamo diretto ed esplicito del modello, unito alla consueta ironia flaianea, accentua ulteriormente il carattere artificioso della rappresentazione:
Invece, qui, il vantaggio di sentirsi in una terra non contaminata: idea che ha pure il suo fascino sugli uomini costretti nella loro terra a servirsi del tram quattro volte al giorno. Qui sei un uomo, ti accorgi di cosa significa essere un uomo, un erede del vincitore del dinosauro. Pensi, ti muovi, uccidi, mangi l’animale che un’ora prima hai sorpreso vivo, fai un breve segno e sei obbedito. Passi inerme e la natura stessa ti teme.
In seguito, quando la morte di Mariam segna l’inizio della crisi psicotica del tenente e all’entusiasmo della ‘conquista’ si sostituisce la sua rabbia nei confronti di sé stesso e delle circostanze, anche la visione della Terra rispecchia l’inversione di rotta del tono narrativo:
Cosa si fa quando una donna muore e siete sperduto con lei nella più buia notte dell’anno, tra ombre ostili, in una terra che ha già logorato i vostri nervi, e che voi odiate con tutta l’anima?
Di qui in poi il paesaggio sembrerà al protagonista sempre più lugubre (ricorre la presenza dei corvi), «guasto» («Se in una terra nasce la iena, dev’esserci qualcosa di guasto»), e perfino maleodorante, paragonabile a «uno sgabuzzino delle porcherie» («Ma sì, l’Africa è uno sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza»). Va precisato che il paesaggio africano non appare mai «guasto» intimamente, nelle sue ambientazioni naturali: la grottesca metafora dello «sgabuzzino delle porcherie» piuttosto allude a un paesaggio africano ‘contaminato’ dalle «porcherie» degli stranieri conquistatori che usano le colonie per «sgranchirsi la coscienza». Anche in questa seconda visione, anche se in direzione opposta rispetto all’iniziale idealizzazione della selva, gli accenti espressionisti prevalgono nettamente sui toni realisti.
Infine, come parzialmente è già emerso, ogni luogo ricopre anche una funzione allegorica.
Gli spazi dell’Africa «non contaminata» sono sempre luoghi epifanici associati alla ricerca dell’autenticità: nella boscaglia si rivelano i desideri segreti del protagonista (verso il finale il tenente stesso paragona l’incontro con Mariam a «una crisi che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso»), mentre nel villaggio di Johannes riemergono le sue ‘pulsioni spirituali’ che negli accampamenti non avevano trovato spazio per venire a galla (non a caso, il protagonista cerca la compagnia della Bibbia per tutto il romanzo, ma la rilegge davvero solo nel villaggio). Il tema della ricerca dell’autenticità in terra africana è molto presente nella letteratura della prima metà del Novecento: attraverso il contatto con un’alterità in primis paesaggistica il protagonista europeo può abbandonare le convenzioni sociali imposte dalla borghesia occidentale per esplorare gli angoli più remoti del proprio mondo interiore.
Di contro, l’accampamento è un teatro delle maschere in cui tutti nascondono qualcosa (la denuncia dell’ipocrisia è tema flaianeo per eccellenza): i soldati nascondono le «mogli africane», gli ufficiali nascondono il bottino dei loro traffici illeciti, e il nostro tenente si sente costretto a nascondere perfino le proprie angosce sulla sua salute. Per dirla con Conrad, l’accampamento coloniale è rappresentato come il cronotopo in cui gli occidentali occultano il proprio ‘cuore di tenebra’.
Il riconoscimento della «specificità coloniale» del romanzo è un’acquisizione critica relativamente recente, risale ai primi anni Novanta, ovvero alla nascita di un indirizzo di critica letteraria postcoloniale con la conseguente elaborazione di un canone di letteratura coloniale italiana. Va detto che il testo è in sé ‘metamorfico’, può ispirare (e ha ispirato) letture incentrate su diversi focus. Forse circoscrivere alla rappresentazione dell’Africa il cuore del romanzo potrebbe trarre il lettore in inganno. A mio avviso, il senso ultimo dell’opera va invece cercato nell’influenza della prosa metafisica novecentesca sulla scrittura flaianea. Ma, in ogni caso, va rilevata l’imprescindibilità dell’ambientazione coloniale: senza la dislocazione in un ‘altrove’ sarebbero venuti meno i tratti surreali della narrazione, senza il confronto con l’alterità non sarebbero vacillate le certezze della costruzione identitaria del protagonista, senza l’influenza dell’ambiente moralmente malsano dell’accampamento coloniale non sarebbero emerse le ossessioni del tenente, a cui vanno ricondotte le sue azioni e i suoi dubbi esistenziali. La poetica paesaggistica è un segmento indispensabile per chiudere il cerchio della lettura Tempo di uccidere.