Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano nascono a pochi anni (rispettivamente nel 1881 e nel 1883) e pochi chilometri (entrambi a Torino) di distanza. Lei, altera e bellissima, possiede un’eleganza innata che ne tradisce l’appartenenza a una capitale nobile. Lui è un pallido nubivago, con un’asprezza nel sorriso che ricorda la nebbia della sua terra.
Entrambi, oltre al dialetto piemontese, parlano il linguaggio della poesia. Nel 1907, quando iniziano a incontrarsi nei salotti letterari della Torino di una tarda belle époque, hanno pubblicato da poco la loro opera prima[1]: lei Le vergini folli[2], lui La via del rifugio[3]. Fra i due nasce un amore prevedibile nella genesi quanto nell’evoluzione: un gioco di seduzione tuttavia non banale, almeno a giudicare dall’ossessione che da sempre il mondo editoriale nutre nei confronti del loro epistolario. Le lettere, salvate dall’oblio grazie all’intervento del bibliofilo Spartaco Asciamprener, vengono pubblicate per la prima volta da Garzanti nel 1951 e in seguito riproposte in varie edizioni, anche di recente (fra cui, ad esempio, quella curata da Franco Contorbia per Quodlibet[4]).
È Guido a cercare un contatto diretto con Amalia: la sua silloge fresca di stampa non è riuscita ad attirare le attenzioni che l’autore spera e ritiene di meritare. Allora decide di tentare con una “sorella letteraria”: in fondo lui e Amalia si trovano dalla stessa parte della barricata, sono giovani poeti innovativi poco amati dai critici della vecchia guardia. E infatti, già partire dal primo testo dell’epistolario, in cui lo ringrazia per averle spedito in omaggio il suo libro (per la “copia civetta”, diremmo oggi), Amalia individua le loro affinità elettive: il comune «rimpianto di ciò che fu», «l’ansia di ciò che non è ancora», il «sottile tormento del dubbio», «l’ebbrezza folle del sogno»[5]. Con un incipit di questo tipo, è chiaro che i due finiscano in pochi mesi per assomigliare a una canzone di De Andrè: Una donna in fiamme e un uomo solo… e poi accuse e scuse e accuse senza ritorno.
L’approccio seduttivo di Guido è orientato dal suo interesse nei confronti di Amalia. Interesse che va inteso in una sfumatura semantica ampia: la prima parte dell’epistolario è tutta centrata sui consigli per ottenere recensioni, tanto che in chi legge s’insinua il sospetto che la frequentazione della bella poetessa rientri in una strategia editoriale elaborata da Guido per farsi introdurre nel giro giusto (in cui, forse a sorpresa per il lettore di oggi, Amalia, astro nascente della lirica sabauda, stimata e protetta da Ada Negri e Dario Mantovani, è inizialmente molto meglio inserita di Guido[6]). Poi il ritmo delle lettere accelera, e l’interesse di Guido si sposta su un piano più intimo. Ma la letterarietà della sua etichetta comportamentale e linguistica non ne risente affatto: «Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato? Lei non sa, Egregia, che cosa significhi per me l’essere innamorato d’una poesia? Significa questo: averne la presenza nel cervello, con una dolcezza quasi importuna, sentirne pulsare il ritmo di continuo nelle cose più diverse e più bizzarre»[7], o ancora: «Credete di essermi molto simpatica Voi? Avete invece, agli occhi miei, delle qualità allontananti. Prima di tutto siete bella. E precisamente di quella bellezza che piace a me. Vi ho veduta poco, ma osservata molto»[8]. Tutto l’epistolario, almeno per parte di Guido – con pochi alti e moltissimi bassi: «strazi curiosi», «miseria cerebrale», «ansiomania inesplicabile», «qualche avventura non fine», «spasimi febbricitanti», momenti di «ambizione artigliante» –, si gioca su questa modulazione della voce fra l’ironico e l’onirico, sui continui travasi della letteratura nella vita e viceversa. Ci si chiede se Amalia sia mai stata per Guido una donna in carne e ossa soltanto un personaggio letterario. O forse, nella sua magna pars, Amalia è per Guido una musa, una fonte a cui abbeverarsi per attingere linfa creativa: da un certo punto in poi, la lady Medusa[9] non gli appare più soltanto come la chiave d’accesso per il giro giusto, ma anche come un viatico per l’esplorazione di perimetri immaginativi ancora sconosciuti al poeta (e a cui resterà fondamentalmente estraneo sempre: Guido sente il richiamo della pulsione di morte, non dell’eros). Chiunque conosca Gozzano attraverso il profilo che di lui tramandano i manuali di storia letteraria, o dalla lettura delle sue poesie, non resterà stupito dal confronto con gli scritti epistolari, che non svelano volti inediti del poeta. Ci troviamo di fronte allo stesso signorotto altezzoso, più incline alla vita pensata che alla vita esperita, malinconicamente egotico, morbosamente attaccato alla mamma (per fortuna tifosa di Amalia[10]) e pre-destinato a non maturare, eppure maestoso nella sua fanciullezza crepuscolare, con cui abbiamo familiarizzato attraverso le opere.
L’Amalia, invece, contiene moltitudini. Nella donna delle lettere forse si intravede il profilo in controluce della poetessa delle Vergini folli e delle Seduzioni, ma nulla ricorda la prosatrice misurata, dallo sguardo d’ironia corrosiva, amante dei finali pulp e regina di un distacco narrativo che si regge sul sarcasmo. Somiglia, tuttavia, all’immagine che di lei ci consegnano alcuni dipinti e numerose fotografie: le fiamme dello sguardo bruno che sfida l’obiettivo sono le stesse che animano spesso i suoi scritti privati.
Come accade in questa lettera, a mio avviso la più ardente:
Passò un ragazzo con un carretto cantando: “E aspetta il fidanzato”… Allora fuggii davvero umiliata, avvilita, annientata dinanzi a me stessa, pensando di voi tutto il male possibile, soffrendo in me tutto il male possibile.
Non osai rincasare subito per non lasciar sospettare alle mie sorelle la mia disdetta. Ho errato quasi un’ora per il Valentino mordendomi le labbra per trattenere in me qualche cosa d’amaro che mi saliva dal cuore, una pietà ironica e aspra per me stessa, per il mio orgoglio, per tutti i piccoli e i grandi colpi già ricevuti in silenzio sussultando, a cui s’aggiungeva ancora questo, inatteso. Sono folle, Guido, a scrivervi queste cose, lo so che voi lo pensate. Vorrei che mi vedeste piangere ancora, mentre scrivo, tanto. Neppure il foglietto rosso che mi portava le vostre scuse ha potuto consolarmi. Ho dovuto lasciar sgorgare tutta quell’amarezza accumulata goccia a goccia, minuto per minuto in umiliazione e in tristezza. Ora sto un poco meglio, ma bisogna ch’io non vi pensi, ch’io non mi ricordi per non soffrirne ancora[11].
Amalia qui scrive “spellata”, concede alla donna “nuda” delle lettere («Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza»[12]) quel che vieta all’autrice dei romanzi: lascia che la penna le frughi nelle viscere per riportare a galla tutto il dolore sommerso, fino a farle percepire l’amore come un oltraggio al (proprio) pudore. E allora ci si chiede: ma questo gioco di seduzione è mai passato dallo scrittoio alla camera da letto? Sembrerebbe di sì, stando alle parole di Guido:
Perché tutte le mescolanze più acri della nostra carne troppo giovane e tutte le aspirazioni più nobili del nostro cervello superiore (oh! Possiamo ben dircelo, senza false modestie!) non formano che un’armonia unica; e del giorno vissuto insieme (ma è stato vero?) io porterò un ricordo che illuminerà le mie tristezze future. Noi non ci vedremo più. Si era detto di seppellire nella solitudine della campagna quanto restava di noi. L’abbiamo fatto. E così sia. Ci siamo salvati dalla sorte comune dei piccoli amanti e dobbiamo uscire più sereni e più franchi. Io sono felice di non dovervi più rivedere. E non soffrirò[13].
Forse sono state righe come queste a violare l’incanto, fiaccando la tenacia di Amalia, che, dopo averlo inseguito a lungo, finirà con l’allontanarsi anche lei da Guido. Le donne della risma di Guglielminetti possono anche «piangere tanto», ma non piangono per sempre: la vita le richiama a sé stessa.
E poi, che la felicità non sia nel loro destino, lo sanno entrambi. Se lo confessano anche nelle lettere, ma soprattutto imprimono le angosce (Amalia) o le consapevolezze (Guido) nei versi. Il personaggio della Signorina Felicita – la protagonista di quello che è oggi forse il più noto componimento di Gozzano – compare per la prima volta nei pensieri di Guido e quasi simultaneamente sulla scrivania di Amalia nell’agosto del 1907, come rivela una lettera in cui il poeta esprime il proposito di scrivere un testo (per la precisione «brevi capitoli lirici legati da una trama sentimentale»[14]) ispirato a una domestica, la quale ha catturato la sua attenzione proprio in virtù della distanza dalla sua amica di penna (e dal modello di femminilità che lui predilige). Il ritratto di colei che sarà la signorina Felicita si costruisce tutto per antifrasi rispetto all’immagine di Guglielminetti. In altre parole, la signorina Felicita è esattamente quel che Amalia non è, ad esempio: «quasi brutta, priva di lusinga/ nelle tue vesti quasi campagnole,/ ma la tua faccia buona e casalinga, /ma i bei capelli color di sole,/ assorti in minutissime trecciuole,/ ti fanno un tipo di beltà fiamminga…»[15]. La felicità non può legarsi al nome della tenebrosa e raffinata Amalia. Le gioie coniugali non sono per loro due, creature fatte di sangue e inchiostro, sono per quegli altri, per il Guido che è diventato avvocato e gode di buona salute, per la Signorina che ama la faccende domestiche e non si è persa a cercarsi nella scrittura.
La visione di Amalia non è molto differente. Lei sa che la solitudine le scorre nelle vene dalla nascita, come la letteratura. Solitudine è un termine che ricorre ossessivamente nei suoi scritti (privati e non). Solitudine è anche il nome che Amalia assegna a quel senso di smarrimento che le provoca l’abbandono di Guido:
Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, io vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano. Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore[16].
Parallelamente, in una delle poesie delle sue Seduzioni[17], Amalia si racchiude in un verso che le aderisce addosso con precisione sartoriale: «ella è pur sempre quella che va sola»[18]. Letta in retrospettiva, questa definizione è densa di presentimenti: la poetessa sola resterà, negli ultimi anni di vita, ben dopo la morte di Guido e dopo altri flirt (fra cui una storia piuttosto avventurosa con Pitigrilli, nome de plume di Dino Segre), perseguitata dai fascisti e allontanata da molti sedicenti “amici”.
In questi nostri tempi, in cui va di moda sbirciare nella vita degli autori attraverso il buco della serratura delle lettere, in cui i lettori sono talmente abituati a cercare corrispondenze fra pubblico e privato che ad ogni presentazione di un nuovo romanzo la prima domanda che risuona nella sala è: “Quanto c’è di autobiografico nel protagonista?”, tutti pensano che lo scrittore racconti quello che gli è accaduto. Quasi nessuno intuisce che spesso si verifica il contrario, che quel che scrivi poi accade, che i grandi autori sono di solito anche grandi maestri dell’autoprofezia. La letteratura ha il potere di penetrare la dimensione della verità anche molto più del piano della realtà.
L’ultima parte dell’epistolario, per alcuni aspetti, ricorda la prima: ritornano le dritte e gli scambi di favori professionali, ritorna perfino una certa formalità nell’intonazione. Amalia si fa sempre più amara, Guido sempre più sfuggente, finché trovano il coraggio di prendere atto della metamorfosi del loro rapporto, nel maggio del 1908: «E ho letto senza sorpresa e senza dolore. No, Amalia mia, non farò nulla perché vi riattacchiate a ciò che prima vi appassionava tanto. È giunta l’ora dell’amicizia. Ed è bene che sia giunta»[19]. E amicizia sarà davvero. Lo dimostra, fra i vari esempi possibili, il fin troppo schietto resoconto che Amalia offre all’amico curioso del primo raduno femminista italiano:
Non rievoco i giorni e i fasti antipatici del Congresso Femminile, consesso di gente sprovvista d’ogni grazia di gesti e d’ogni eleganza di spirito. Donne d’ogni età e d’ogni presenza ma tutte così poco accoglienti, così poco fraterne, così intimamente sconosciute ed ostili quasi l’una all’altra da destare in me un senso sordo di antipatia sdegnosa per tutto ciò che sa di riunione femminile di congrega intellettuale, e specialmente di rombante richiamo a poche inferiori intelligenze provviste bene o male di qualche abilità più o meno fruttifera[20].
I due borghesissimi poeti sabaudi, entrambi “di buona famiglia” ed entrambi assorbiti dall’unica occupazione del lavoro letterario, ma scettici (soprattutto Guido) e desiderosi di trasgressione (soprattutto Amalia) verso il perbenismo della morale dominante, si concedono il gusto del pettegolezzo soltanto in reciproca compagnia. Perché sanno di com-prendersi, di avvolgere il mondo con lo stesso sguardo obliquo, da una prospettiva che tenta di innalzarsi. E ancora lo conferma la disponibilità di Amalia a presentare Guido a D’Annunzio – quest’ultimo aveva nel frattempo maturato di lei un’altissima opinione –: «Caro Guido, questa mattina ho parlato per mezzora con Gabriele d’Annunzio il quale mi ha manifestato un vivo desiderio di conoscerti. Gli ho promesso di portarti da Lui io stessa quando il Poeta tornerà a Torino, cioè nel mese di marzo»[21].
La relazione fra Guglielminetti e Gozzano è camaleontica, e forse proprio per questo destinata a non appassire. Il loro legame non si spezzerà mai, neanche dopo la scomparsa di Guido (9 agosto 1916). Come da tradizione letteraria, la loro corrispondenza d’amorosi sensi continuerà post mortem, e Amalia sarà fra le prime a impegnarsi perché Guido risplenda di quell’aura che per noi oggi circonda la figura di Gozzano – ignara che proprio quella luce avrebbe contribuito ad adombrarla, rendendola vittima di uno dei più clamorosi casi di damnatio memoriae della produzione letteraria italiana novecentesca (Amalia Guglielminetti chi? L’amante di Gozzano)[22].
Del resto, in letteratura è cosa nota: gli amori impossibili sono quelli che durano per sempre.
[1] Per la verità, Amalia Guglielminetti aveva già pubblicato nel 1903 una breve silloge poetica dal titolo Voci di giovinezza. Tuttavia, si trattava di un esercizio poco più che scolastico: data anche la scarsa circolazione del volume, sia l’Autrice sia la critica considereranno Le vergine folli la vera opera d’esordio della poetessa.
[2] A. Guglielminetti, Le vergini folli, Lattes, Torino 1907.
[3] G. Gozzano, La via del rifugio, Streglio, Torino-Genova 1907.
[4] G. Gozzano e A. Guglielminetti, Lettere d’amore, a cura di F. Contorbia, Quodlibet, Macerata 2019. Tutti i testi riportati dalle lettere sono tratti da questo volume.
[5] Dalla lettera del 13 aprile 1907.
[6] Per approfondire le amicizie letterarie di Amalia Guglielminetti si può ricorrere in particolare al volume S. Raffo, Lady Medusa, a cura di G. Bianchi, Bietti, Milano 2012.
[7] Lettera del 5 giugno 1907.
[8] Lettera del 7 giugno 1907.
[9] “Lady Medusa” è il soprannome con cui Amalia Guglielminetti era nota nei salotti letterari.
[10] “Vi aspetto dunque e vi aspetta anche mia madre che è lettrice vostra e grande ammiratrice” (dalla lettera del 4 ottobre 1907).
[11] Lettera del 30 novembre 1907.
[12] Dalla lettera del 24 marzo 1908.
[13] Lettera del 12 marzo 1908.
[14] Lettera del 3 agosto 1907.
[15] La Signorina Felicita ovvero la felicità in G. Gozzano, I Colloqui, Treves, Torino 1911.
[16] Lettera del 24 marzo 1908 (mio il corsivo nel testo).
[17] A. Guglielminetti, Le seduzioni, Lattes, Torino 1909.
[18] Ibidem (la citazione è tratta dal testo Il desiderio).
[19] Lettera del 24 maggio 1908.
[20] Lettera del 30 maggio 1908.
[21] Lettera del 23 febbraio 1910.
[22] Il lettore curioso potrà trovare un valido supporto per la riscoperta dell’opera e della vita di Amalia Guglielminetti nel recente volume A. Ferraro, Singolare femminile. Amalia Guglielminetti nel Novecento italiano, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2022.