L’entusiasmo, si sa, si diffonde per osmosi. Ci sono libri che diventano veicoli di contagio della passione, che, attraversando le pagine, si trasmette dall’autore al lettore. A questa categoria appartiene l’ultima prova letteraria di Lucrezia Lombardo, Una vita di Lampo. Portraits de poètes (Eretica Edizioni, 2023), un testo luminoso, che non nasce come studio specialistico, ma come agevole pamphlet rivolto ai lettori desiderosi di saperne di più sui poeti italiani del Novecento, per appagare la curiosità e magari scoprire nuove sintonie elettive.
Come ci viene raccontato da Gessica Franco Carlevero nella sua Nota introduttiva, questo libello si è generato da un progetto più ampio, nato in un altro luogo e un’altra lingua. È il 2020 quando Lucrezia Lombardo inizia a collaborare con la rivista indipendente francese La Bibliòteque Italienne, in prima linea nella diffusione della letteratura italiana in Francia, per la quale cura una serie di portaits de poètes dedicati ad alcuni poeti nostrani del Novecento. Una vita di lampo offre in traduzione italiana una selezione di questi ritratti, selezione che nasce da una scelta «naturale e istintiva. Senza un intento pedagogico, un criterio cronologico, formale o un ordine gerarchico».
Nonostante la vocazione della rivista allo smarginamento dei confini abbia prevalso (per fortuna) su rigidi criteri di stampo cronologico o metodologico a partire dalla selezione autoriale (e un’eco di questa libertà ci arriva attraverso lo slancio emotivo che si irradia nelle pagine), si può facilmente rintracciare un fil rouge che lega tutti i poeti, come suggerisce fra le righe la stessa Lombardo nella sua Premessa: si tratta di voci liriche che individuano nel verso una forma di resistenza contro l’appiattimento linguistico, e nel potere della scrittura una forma di «analisi profonda» della condizione ontologica nelle sue contraddizioni. Perché, è doveroso precisarlo, nella visione (a mio avviso largamente condivisibile) di Lombardo fare poesia possiede, oggi più che mai, un «valore rivoluzionario». Un vero poeta non canta la rivoluzione, fa la rivoluzione cantando, sosteneva Joyce Lussu. Questa frase mi è riecheggiata spesso durante la lettura di Lombardo, perché mi è parso di scorgere tra la sua sensibilità culturale e quella di Lussu diversi punti di tangenza, una simile attitudine al fare (e all’interpretare) poetico, che si concretizza in un approccio basato sull’assenza di dissociazione fra sentire politico (nel più ampio spettro semantico del termine) e agire letterario.
I timbri dominanti nella voce di Lucrezia Lombardo sono la grazia e il calore. Ancor più nello specifico, c’è una cifra distintiva in questa autrice che le ammiro molto (e quasi le invidio): la capacità di fondere una passione veemente con un’eleganza innata che si riverbera in ogni scelta stilistica, a partire dal suo raffinatissimo (ma ugualmente schietto e gramscianamente chiaro) vocabolario lessicale. E così Lombardo, con la sua intonazione calda e melodiosa, accompagna il lettore a zonzo fra le vite e le opere di alcune delle maggiori personalità letterarie del Novecento, dai “nuovi poeti” che segnano l’inizio del secolo breve attraverso la discontinuità con l’habitus lirico ottocentesco, fino all’agire di rottura dei poeti della terza (come Penna, Sereni, Luzi) e quarta (come Giudici, Pasolini, Zanzotto) generazione. Incrociamo, fra gli altri, l’errabondo Dino Campana, che si muove sui «precipizi della vita», cercando nell’astrazione dell’attività letteraria una cura per l’insofferenza verso la mentalità borghese di provincia. Ognuno lotta come può contro i propri fantasmi: Campana alterna i viaggi fuori dalla Penisola ai ricoveri in manicomio, e nel frattempo innerva i suoi versi con l’ossessione per la ricerca della verità che tormenta il suo spirito. Ci addentriamo nell’itinerario esistenziale del “sopravvissuto” (alla guerra e alla prigionia) Vittorio Sereni, che vive la poesia come uno strumento umano per ricostruire il confronto con una realtà smembrata, che il poeta ha esplorato fin nei suoi abissi più oscuri: li ha sondati attraverso la disumanità dei conflitti militari. Attraversiamo i recinti di tenebre che costellano la «vita di lampo» (a questo capitolo si deve il titolo del volume) di Antonia Pozzi, scavata fin dall’infanzia da quel dolore che rimandano i suoi versi «tragici e accecanti». Un male oscuro da cui tenta invano di scappare, attraverso due amori letterari: quello per il suo insegnante di latino e greco, in cui trova un complice nella passione per il sapere e una valvola di sfogo per la sua pulsione a una libertà sprezzante delle norme del perbenismo, e quello per la scrittura, che rappresenta per lei tormento e cura, nutrimento del dolore e conforto allo stesso. Ciascuno dei percorsi proposti si caratterizza per l’incedere delicato, in ogni capitolo Lombardo si fa guida dell’altro accogliendolo.
Pur nella sua brevità (che si deve alla capacità dell’autrice di mantenere alta la densità in ogni riga), Una vita di lampo si presenta come un testo curato e accurato. Eppure, a mio avviso, non è nella scrupolosità del lavoro di ricerca o nella precisione della documentazione storica e biografica che risiede il maggior pregio di questo libello: il suo valore va cercato nella dimensione dell’affinità esistenziale in cui Lucrezia Lombardo si confronta con i poeti che racconta. E riesce a restituire al lettore l’unicità dell’essenza di ognuno, offrendo di tutti i profili disegnati nel volume un ritratto tanto autentico quanto amorevole.