Dalla parte delle “Imperfette”

Never surrender, never give up the fight

I più antichi slogan femministi che mi affiorano alla memoria sono inglesi. Per una volta non si tratta di un riflesso condizionato dall’imperante anglofilia, ma di un riconoscimento storico: la patria di Mary Wollstonecraft, una delle prime scrittrici femministe, è sempre stata all’avanguardia sulle tematiche di genere, e non è un caso che il movimento delle suffraggiste sia nato nel Regno Unito. Se frughiamo fra le nostre reminiscenze scolastiche alla ricerca di tracce dell’età vittoriana e postvittoriana, probabilmente qualche eco di cortei, manifestazioni e proteste di vario tipo indette dai movimenti femministi tornerà a galla. Ma ci siamo mai chiesti quali fossero le storie private di queste donne, ci siamo mai interrogati sulla loro vita intima?

La seconda metà dell’Ottocento è anche il periodo in cui in Inghilterra iniziano a diffondersi le riviste femminili, che ospitano, tra ricette di cucina e lezioni di cucito, brevi novelle, scritte per lo più da autrici: si tratta di testimonianze preziose, che registrano come un sismografo i tumulti che si agitano sotto la superficie piatta della società borghese, e restituiscono attraverso il potere della narrazione il clima di quegli anni in cui una regina decideva delle sorti di un Impero a Buckingham Palace mentre le altre donne restavano per lo più confinate all’interno delle mura domestiche.

Al repertorio inedito delle riviste femminili attinge l’antologia Le imperfette. Storie di donne nell’età vittoriana e postvittoriana (Primiceri 2020), una raccolta di dieci racconti (nove dei quali mai tradotti in italiano) a cura e con traduzione di Emanuela Chiriacò, corredati da una scorrevole Introduzione della stessa Chiriacò e da una densa Postfazione di Paola Del Zoppo, che rilegge i testi del volume alla luce del concetto di liminality, ponendo l’accento della riflessione sugli elementi e le situazioni “di passaggio” (dalla giovinezza alla vecchiaia, dal ruolo di figlie a quello di mogli) che trapuntano l’intero tessuto del volume. Le novelle (a firma di George Moore, Ella D’Arcy, George Egerton, Netta Syrett, Arthur George Morrison, George Gissing, Virginia Woolf, Mary Sinclair, Elinor Mordaunt, L. Parry Truscott) coprono l’arco cronologico del quarantennio che va dagli anni Novanta dell’Ottocento ai Venti del Novecento. Interamente ambientate in Inghilterra – e la Britishness viene fuori negli scenari ma soprattutto nel pacato humour di alcune voci narranti («Come molti uomini svegli, si era avventurato un poco nel socialismo, e una volta si era aggirato tra gli emarginati») –, raccontano di donne che si scontrano con le loro imperfezioni: c’è chi ama troppo e chi deve prendere atto della propria ingenuità, chi cova rancori familiari e chi coltiva illusioni, chi sfida apertamente il perbenismo e chi si rimprovera di non riuscire a stringersi nel perimetro limitante dell’etichetta. Va precisato, inoltre, che la compattezza caratterizza questa raccolta non solo sul piano tematico ma anche su quello stilistico: il percorso proposto ripercorre l’evoluzione del ritratto femminile dal modello vittoriano fino all’affermazione dell’immagine della new woman e, parallelamente, sul piano estetico, si parte dal realismo tardottocentesco per giungere ai primi esempi di flusso di coscienza.

 

Il privato è politico

Quando si discute di diritti delle donne, non si può evitare di parlare di divorzio. La storia del femminismo moderno è scandita dalle battaglie nell’ambito del diritto matrimoniale, come ci ricorda Chiriacò, che, nella sua Introduzione, ci guida dal Married Women’s Property Act, con cui nel 1882 le donne sposate acquisiscono i diritti di proprietà sulle eredità familiari, fino al consolidamento nel 1907 della legislazione sul mantenimento delle divorziate.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, che tutte le novelle di questa raccolta siano centrate sulla rappresentazione del matrimonio, che dalle donne era vissuto (e forse per qualcuna lo è ancora) come una tappa obbligata, quasi sempre preceduta dall’ansia da prestazione e quasi sempre seguita dalla conversione al disincanto. Se le prime novelle presentano uno sguardo critico embrionale sulle ricadute concrete di singole esperienze matrimoniali (questioni private, direbbe Fenoglio), a partire dal racconto “di mezzo” Terra incognita (1894) di George Egerton (nome de plume di Mary Chavelita Dunne Bright), emerge con forza la presa di coscienza della natura coercitiva dell’istituzione matrimoniale:

«Non le biasimo; non si può fare altrimenti fino a quando il matrimonio si fonderà su queste condizioni inique, fino a quando ciò che un uomo pretende da una moglie come un diritto, a un’amante lo deve implorare come un favore; fino a quando per molte donne il matrimonio sarà prostituzione legalizzata, un degrado notturno, un giogo odioso con cui invecchiano, fino a quando non saranno genitrici di figli concepiti per senso del dovere, non per amore».

(p. 102)

Questo passaggio testuale, e in particolare l’equivalenza fra matrimonio e prostituzione legalizzata, mi ha evocato per associazione il ricordo della scena più brutale di una fra le serie televisive amatissime degli ultimi anni, Unorthodox. La serie racconta la vicenda di Esty (ispirata alla storia vera di Deborah Feldman), diciannovenne fresca di nozze, in fuga dalla comunità ultraortodossa chassidica di Brooklyn. Durante il quarto e ultimo episodio, la protagonista, affetta da vaginismo, dopo aver tentato invano per diversi mesi di riuscire a imporre al proprio corpo una volontà che le era stata imposta all’intelletto, decide di lasciarsi stuprare dal marito. Il quale, alla fine dell’atto, definisce la loro prima esperienza sessuale “incredibile”. Già, incredibile.

 

Fra mariti e amanti, o della necessità della Sorellanza

Prima di tornare ad avvolgerci dell’atmosfera british delle nostre imperfette, restiamo ancora per un po’ all’interno del microcosmo di Unorthodox. I doveri coniugali per Esty sono una imposizione, badate bene, non un’autoimposizione. Esty è anzi perfettamente consapevole del proprio diritto al piacere, lo ribadisce a chiare lettere anche al suo partner. L’urgenza di consumare il matrimonio viene imposta dall’esterno: dal marito, e soprattutto dalla di lui madre e di lui sorella. Perché, a differenza del suo coniuge, Esty non ha sorelle o alleate: la madre ribelle le è tenuta lontana e la zia le rifiuta qualsiasi sforzo di comprensione, impegnata com’è a tentare di proteggere la reputazione della famiglia, in cui nessun membro femminile deve apparire “guasto”.

È la stessa posizione in cui si trovano le donne dei più malinconici racconti delle Imperfette. Quando si crea la concreta possibilità di un’alleanza al femminile, come avviene in Un cuore fedele (1892) di George Moore, in cui la cognata della protagonista si offre di strappare quest’ultima alle grinfie del fratello («penso che una donna sia sciocca a permettere a un uomo di imbrogliarla e prenderla così tanto in giro»), la possibilità della salvezza viene sacrificata sull’altare della devozione al proprio coniuge, anche a costo di rassegnarsi a un’esistenza misera e clandestina. Quando, come in Genio (1921) di Elinor Mordaunt, la madre e la fidanzata di un pianista si ritrovano nella medesima condizione di schiavitù forzata per permettergli di concentrarsi solo sulla sua musica, lasciano sfumare l’istintiva solidarietà ed evitano perfino di confessarsi l’un l’altra i pensieri su di lui (molto simili) che le attraversano, perché l’amore per lo stesso uomo, come troppo spesso accade, invece di avvicinarle, scava una distanza fatale tra le due.

Al contrario, quando il lettore assiste alla nascita di sodalizi al femminile, come nel racconto L’associazione (1921) di Virginia Woolf (fucina creativa per alcune delle successive opere maggiori dell’autrice), alle consapevolezze condivise viene affidato il compito di modificare il corso della Storia, e si può finalmente iniziare a guardare al domani con leggerezza e ottimismo, perché il futuro si configura come la dimensione in cui le donne avranno iniziato a «credere in sé stesse». In excipit troviamo al centro della scena, non a caso, una bambina.

 

La morte della Madre: dall’old woman alla new woman

Ho definito Terra incognita di George Egerton “racconto di mezzo” perché si trova al centro del volume (che segue un ordine cronologico), e la sua posizione risulta più che mai adeguata: la novella, la più didascalica e al tempo stesso la più rabbiosamente dolente dell’intera raccolta, rappresenta uno snodo cruciale del percorso offerto dall’antologia: in particolare segna il passaggio dal modello vittoriano della “old woman” a quello contemporaneo della “new woman”, termine coniato dalla scrittrice femminista irlandese Sarah Grand nel 1894 per dar voce a una generazione di donne affamate di indipendenza, pronte a rivendicare i loro diritti in materia di emancipazione e autodeterminazione.

La giovane protagonista di Terra incognita, infatti, non solo riesce a risemantizzare il proprio vissuto collocandolo in un orizzonte culturale più ampio e offrendo una lucida disamina delle dinamiche interne ai matrimoni combinati, ma, al culmine della resipiscenza, si scaglia anche contro la propria madre, e con lei contro tutte le donne delle generazioni precedenti (le old  women), giudicate colpevoli di non aver saputo proteggere o almeno preparare le loro eredi alla brutalità del destino femminile in una società misogina:

«Dico che è colpa vostra, perché mi avete cresciuta come una stupida, idiota, ignorante di tutto quello che avrei dovuto sapere, tutto ciò che riguardasse me e la vita che ero destinata a vivere da moglie… Mi avete data a un uomo, anzi peggio, mi avete detto di obbedirgli… Mi avete detto, voi e vostra sorella, e la vostra amica, la moglie del vicario, che vi avrei liberato da una preoccupazione se avessi avuto una sistemazione agiata»

(p. 104)

Dal canto suo, la madre-carnefice, dopo l’improvviso sfogo della figlia, «si sente come se avesse aperto gli occhi, come se gli istinti e le convenzioni della sua vita fossero crollati, come se tutti i bisogni delle donne che protestano e delle quali ha letto con vago disprezzo le fossero diventati chiari» (p. 107).

La parabola dell’uccisione del padre – o forse, sarebbe più opportuno dire della madre – è compiuta: dopo aver sperimentato sulla propria pelle cosa significhi adeguarsi ai canoni dell’old woman, la protagonista è ora pronta non solo ad affrancarsi dal modello, ma anche a scardinarlo a partire dalle fondamenta, in una missione di libertà che non si accontenta di nutrirsi del presente e del futuro, esige anche un retelling del passato, a partire dal conflitto con chi quel modello lo ha incarnato.

 

New man?

Una donna ama un uomo (che non è suo marito), il quale si diletta a rimproverarla per la sua indole fin troppo mansueta, per il suo stare con le mani in mano: all’attivismo virile di lui si contrappone la passività da “sesso debole” di lei. Per non rischiare di compromettere la reputazione di entrambi, lui decide di allontanarsi, prendersi un periodo di pausa, consapevole che tornerà sui propri passi: non saprà starle lontano a lungo. Quando lei resta vedova, infatti, lui si presenta di nuovo a casa della sua amata, che tuttavia, nel frattempo, per sopravvivere al dolore dell’abbandono, ha deciso di evolversi ed è diventata una donna impegnata, una militante. Quando i due si incontrano, lui non riesce più a riconoscerla: non ritrova in lei quella docilità che la rendeva ai suoi occhi simultaneamente oggetto di scherno e di desiderio.

La vicenda che ho  brevemente riassunto è quella che Parry Truscott ci narra nell’ultimo racconto dell’antologia, La donna con le mani in mano (1922), che pone un’altra questione, a mio avviso, non solo attuale, urgente. Il fatto è che il protagonista maschile di questa novella non cerca una compagna di viaggio, piuttosto cerca un punto d’approdo dopo il viaggio: non vuole affrontare insieme alla sua amata la tempesta, vuole che lei sia il porto in cui ritirarsi dopo aver navigato in solitudine le acque della propria irrequietezza. Il quesito implicito di questo racconto è: qual è il modello maschile in grado di stare accanto alla new woman? Grazie alle lotte delle nostre antenate, noi donne abbiamo elaborato un modello di femminilità sostenibile. E gli uomini? Forse è giunta l’ora che si discuta anche dell’elaborazione culturale di un modello di virilità alternativo a quello patriarcale. Mi pare che l’autrice ne avesse già consapevolezza nel 1922.

In margine, non posso astenermi dal sottolineare una scelta narrativa di Parry Truscott che ho particolarmente amato: l’evoluzione della protagonista si riflette prima e viene anticipata poi attraverso la rappresentazione del suo studio e dell’arredamento dello stesso, in altre parole della sua stanza tutta per sé.

Sulla mensola del camino, dove lei non aveva mai tenuto più di uno o due soprammobili e il vecchio orologio dorato, c’erano adesso una catasta di fogli, uno scaffale zeppo di robaccia… cose tipo… una bottiglie di inchiostro, una candela sgocciolata di ceralacca e un gomitolo di corda sporco. E giusto nel mezzo della stanza uno scrittoio rozzo, grande, un tavolo da ufficio con carte impilate, libri maestri, una macchina da scrivere portatile, e… resti di mozziconi di sigaretta.

(p. 211)

Quando si discute di questioni di genere, non si può prescindere dal parlare dello (per dirla con Brogi) spazio delle donne. In questo caso, alla rappresentazione del vuoto di una vita inattiva, in cui ogni energia viene assorbita dal desiderio per l’amante, si sostituisce la descrizione dei correlativi oggettivi di una rinascita sotto l’egida dell’impegno sociale. La protagonista è diventata una scrittrice e un’attivista, e il suo studio si rivela capace di compiere l’impresa in cui fallisce il suo amante: accogliere il cambiamento.

 

“The woman is perfected. Her dead body wears the smile of accomplishment”: dalla parte dell’imperfezione    

Nel titolo del volume (la cui scelta si deve alla coordinatrice del progetto Antonia Santopietro) riecheggia metamorfizzato il primo verso di una delle più note poesie di Sylvia Plath, Edge: un testo straziante, intensissimo, che si regge sul parallelismo fra morte e perfezione.

Tutte le protagoniste dei racconti di questo volume sono chiamate a scegliere fra l’accettazione (la com-prensione) di quelle parti di sé stesse viste dalla società patriarcale come difetti e la sottomissione a un ideale di perfezione fatale, così vicino al provocare pulsioni di morte che neanche l’eros riesce a presentarsi come un’ancora di salvezza: l’unica strada per la sopravvivenza è la ribellione.

È in quest’ottica che le donne dell’antologia offrono uno specchio per le donne di oggi, per tutte noi che quotidianamente siamo chiamate a valicare confini, sfidare limiti e imposizioni. La raccolta di racconti nata dall’affinità elettiva tra due studiose consapevoli del valore della sorellanza, Emanuela Chiriacò e Paola Del Zoppo, è una dichiarazione d’amore rivolta alle Imperfette di ieri e di oggi, che si offre come una mappa per tutti i lettori che desiderano avventurarsi nelle terre incognite dell’universo narrativo femminile.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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