Ho dedicato larga parte delle mie ferie d’agosto alla lettura compulsiva, e sono stata ricompensata con una serie di scoperte interessanti. Ma ho anche maturato la consapevolezza che difficilmente potrò imbattermi a breve in un altro testo capace di appassionarmi quanto l’ultimo lavoro di Dario Ferrari, autore toscano che ci aveva già dato modo di apprezzare l’arguzia della sua penna con il giallo d’esordio La quarta versione di Giuda (Mondadori 2020), ma che con il suo ultimo lavoro, La ricreazione è finita (Sellerio 2023), ha superato le aspettative, firmando un romanzo che, come lettrice, aspettavo da un po’, pur senza esserne consapevole.
La storia si estende in uno dei tanti territori italiani che soffrono della sindrome del provincialismo: tra Viareggio e la Pisa accademica che abbiamo imparato a conoscere dai racconti di Siti, Gardini e Gaspari. Qui si svolge placida l’esistenza del «debosciato» Marcello Gori, ex studente pendolare e fuori corso – ed entrambi i tratti, pendolarismo e fuoricorsismo, sono cifre identitarie che ti rimangono attaccate sulla pelle, aggiungerei per esperienza personale –, attualmente neolaureato e disoccupato. A dispetto (termine quanto mai appropriato) delle aspettative, per una serie di (s)fortunate coincidenze, Marcello vince un concorso per il dottorato. Viene allora affidato alle “cure” di uno dei pochi docenti che godono della sua stima fin dagli anni da studente, il professor Sacrosanti, dominus occulto della facoltà di Lettere, barone con alle spalle un passato di militanza nella Sinistra extraparlamentare.
Nonostante Marcello sia portatore di una visione del mondo viziata da irresistibile cinismo, la sua tendenza alle grandi speranze (retaggio di un’adolescenza mai abbandonata) viene fuori subito dopo il concorso, al momento di concordare col suo mentore l’argomento del progetto di ricerca: il dottorando sogna studi ambiziosi sui più celebri nomi del panorama letterario contemporaneo mondiale, il professore lo convince invece a volare basso, a ripiegare su un autore italiano ‘minore’ («È così che funziona l’accademia. Si conquisti un feudo in cui è inattaccabile, e chiunque vorrà attraversarlo dovrà pagarle una gabella: leggerla, e soprattutto citarla […]. Senza un feudo, non va da nessuna parte»).
E siamo arrivati al cuore pulsante del romanzo. Marcello inizia a occuparsi del conterraneo Tito Sella, terrorista morto in carcere, autore di alcune opere narrative note solo nel ristretto circuito dei contemporaneisti e di una una presunta autobiografia mai ritrovata, la Fantasima, delle cui tracce il protagonista andrà a caccia in un archivio parigino. Dopo qualche reticenza iniziale e una serie di indagini preliminari basate sulle memorie del paese, Marcello sviluppa una stramba forma di ossessione verso Tito Sella, a cui comincia a dedicarsi con passione crescente, fino a ritrovarsi immerso in un gioco di specchi a tratti psicotico. Anche perché, va ricordato, Marcello è uno scapigliato che non ha mai preso molto sul serio neanche la propria storia («non mi trovo un argomento così interessante da meritare la mia attenzione»: questo aspetto caratteriale mi pare possa fungere da spunto di riflessione per una generazione intera), figuriamoci a quanto possa ammontare il suo interesse per la Storia. Eppure, a conferma del processo di identificazione in atto con un coetaneo del passato («Paradossalmente, Tito Sella lo sono diventato») di cui ammira l’indole almeno quanto il talento, Marcello inizia a cercare anche nella propria vita un’eco dell’esperienza di Sella, fino a sperimentare una sorta di militanza politica grazie alla frequentazione del movimento dei gilets jaunes. Ma l’avventura delle manif parigine, condita anche da una storia di sovversivo amore, si rivela simile più a un gioco di ruolo sulla rivoluzione che alla rivoluzione stessa.
Siamo così certi che su questo punto il nostro presente non possa intessere un dialogo col nostro passato?
La ricreazione è finita è una lettura-guida per chi si è perso nell’Università o nei suoi dintorni. Lo è perché il sarcasmo dissacrante di Ferrari spoglia il mondo accademico delle sue vestigia, fino a restituirci il disegno di una turris eburnea sempre meno solida, sempre più simile a una bolla di illusioni. Ma non è soltanto un campus novel.
È la storia di un trentenne che vive in stato di anestesia. Nel suo disincanto, che si intreccia parossisticamente al desiderio di prolungare ad libitum la giovinezza, potrebbero rispecchiarsi moltissimi lettori “neoadulti” (tra cui me). Ma non è soltanto un romanzo generazionale.
È un libro sulla lotta armata, che rievoca l’atmosfera degli anni Settanta e ci immerge nelle utopie di chi tentava di opporsi ai compromessi storici al fine di rivitalizzare la guerra allo sfruttamento del proletariato, per misurare la distanza tra presente e passato. Ma non è soltanto un saggio sugli anni di piombo o sulla produzione letteraria del periodo.
Piuttosto, è un romanzo – dotato di una spiccata letterarietà, denso di allusioni, rimandi e citazioni –, sull’incompiutezza della vita e della storia (quella con la minuscola e quella con la maiuscola).
«A volte uno si sente giovane ed è soltanto incompleto» ci dice Ferrari, metamorfizzando Calvino: è nel segno della incompiutezza esistenziale che Marcello Gori incontra Tito Sella. Ed è sempre qui che l’analisi delle divergenze fra passato e presente arriva a includere anche le affinità. Perché a volte (ieri come oggi) la pulsione al cambiamento si smarrisce nella solitudine, a volte la sconfitta è una questione privata, a volte i sogni sono destinati a trasformarsi in atti mancati.