Tutte le nostre prigioni: su “Resta con me, sorella” di Emanuela Canepa

Era il 1968 – data già di per sé emblematica – quando Alice Munro attribuiva alla protagonista di uno dei suoi racconti più irriverenti, Lo studio, un’epifania improvvisa giunta nel mezzo dei servizi domestici, in grado di mostrarle «la soluzione della vita», di condurla a una svolta esistenziale «semplice ma audace»: «Ho pensato che dovrei avere uno studio».

Questo brano mi insegue, forse perché uno studio tutto per me non ce l’ho mai avuto.  Sta di fatto che il passaggio testuale in questione riaffiora nella mia memoria ogni volta che prendo atto, e capita spesso, del fatto che parlare della condizione di genere significa anche, sempre, affrontare un discorso sugli spazi.

È chiaro, quindi, che le autrici si siano costantemente interrogate sul tema, per dirla con Brogi, dello spazio delle donne: quello da cui siamo state esiliate, quello che lottiamo per conquistare, quello in cui hanno tentato di relegarci, quello che vorremmo esplorare. A questo coro va ad aggiungersi la voce dell’amatissima Emanuela Canepa – autrice da seguire a ogni passo, perché nella coerenza del suo percorso letterario si riconosce l’incedere della scrittrice vera, che si tiene stretto il proprio bagaglio di ossessioni e riflessioni, o, per dirla in termini retrò, che resta fedele alla sua poetica ­–, il cui ultimo romanzo Resta con me, sorella (Einaudi 2023) si potrebbe leggere interamente come una indagine allegorica sul rapporto delle donne con gli spazi.

E infatti la prima parte della storia si svolge in carcere. Siamo in Veneto, negli anni Venti del Novecento. Anita, la protagonista, è costretta a cedere il suo posto, in famiglia e sul luogo di lavoro, al fratellastro: si assume la responsabilità di un furto compiuto da lui. E questo perché entrambi sono impiegati nella redazione di un giornale locale – e Anita, per la verità, è più brava ­–, ma il fratellastro guadagna di più, quindi se lui finisse dietro le sbarre il resto della famiglia finirebbe sul lastrico.

Dopo l’umiliazione di una confessione fasulla, Anita si ritrova alla Giudecca. Alla descrizione del carcere femminile sono dedicate alcune tra le più belle pagine del romanzo: Canepa ce lo racconta come un microcosmo che ha di fatto dichiarato l’indipendenza dal resto del mondo. Una sorta di isola nell’isola, che vive di una fredda umidità che penetra le ossa (ho sentito il bisogno di una coperta durante tutta la lettura di questa parte, nonostante fosse maggio), e si regge sull’ostilità repressa («In mancanza di coltelli la rabbia si gonfia calunniando alle spalle») e sul principio di invadenza («Anita reprime un moto di stizza, come in passato, in altri colloqui, di fronte a suor Lorenza. La disturba che le guardino dentro e frughino nello spazio dei suoi pensieri, l’unica superficie di intimità che le è rimasta»).

Qui la protagonista trascorre la maggior parte del suo tempo tentando di sottrarsi alla curiosità delle altre detenute, tutte diffidenti nei suoi confronti. Probabilmente perché Anita resta sempre immersa nei suoi pensieri, probabilmente perché è più colta e quindi potenzialmente pericolosa, probabilmente perché gli altri intuiscono nella profondità dei suoi silenzi una pulsione all’autonomia che cova sotto la cenere (del resto, suo padre «aveva seminato in lei un desiderio di indipendenza, facendo però un passo indietro e lasciandola sola prima che le riuscisse davvero di consolidarlo»).

Tutte diffidenti tranne una, Noemi, la più temuta, che la prende subito sotto la sua ala protettiva, scardinando le barriere che Anita ha alzato per pudore e autoprotezione («Sin dal primo momento in cui si sono avvicinate Noemi ha sospeso verso di lei ogni tipo di ritrosia, sia pure nella forma aspra e scabra che le appartiene, come se da tempo attendesse una compagna con cui parlare. Anita si sente lusingata, sa di essere stata scelta»). Noemi è l’unica che si distingue nella folla delle carcerate (ad Anita «pare di intuire in Noemi un doppio fondo, una vocazione a non occuparsi solo dei bisogni essenziali, un desiderio di bellezza»), l’unica in cui la protagonista riesce a riconoscersi, e quindi l’unica con cui può sognare una vita dopo la reclusione, pianificare un piano di riappropriazione di spazio.

Il problema è che il carcere non è l’unica prigione. A giudicare dall’avvio della narrazione, forse il lettore si aspetterebbe che il racconto si concluda alla Giudecca, nel posto in cui si è entrati nel vivo della storia. E invece no. Anita sconta la pena e viene assunta come domestica, ma tra le calli di Venezia si fa strada a passo incerto: si sente smarrita. Ed è proprio mentre tenta di reimparare a gestire una (parziale) libertà dimenticata che si interroga più a fondo (e con le più interessanti intuizioni) sulle direzioni da seguire per evitare di finire dietro altre sbarre:

“Ecco quello che avrò, si dice Anita, ecco lo spazio che mi resterà in futuro. Nessuna libertà d’azione. Ogni desiderio coinciderà con il suo desiderio, ogni ambizione con la sua ambizione. Non sarò mai più una persona, ma solo una funzione delle sue necessità”.

Di nuovo, nella ricerca di una via di fuga che le garantisca la sopravvivenza, Anita si affida alla “sorella” Noemi. Ma, da ancora di salvezza, finisce col trasformarla in una chimera.

Della trama ho rivelato fin troppo. Quello di Canepa non è un libro da riassumere. È un testo si presta più all’analisi che alla sintesi, necessita di una lettura assorta, di quelle in cui ci si sofferma su ogni rigo per sottolineare i preziosi sottotesti intuiti nel risvolto di una frase.

Resta con me, sorella è un romanzo storico ricco di personaggi, azioni, evoluzioni, conflitti e perfino colpi di scena: un romanzo “di trama” che diventa più avvincente a ogni pagina, fino a un finale che spiazza. Ma è anche, se non soprattutto, una meravigliosa esplorazione allegorica della geografia al femminile, in cui l’autrice si fa carico della sfida di portare a galla, e rappresentare per immagini narrative, verità che rischiano di restare sommerse.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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