L’adolescenza d’inchiostro di Bianca Versienti

Con i miei ricordi d’adolescenza ho un rapporto conflittuale, probabilmente perché conflittuale, lo sappiamo, è l’adolescenza stessa. Non tornerei indietro, neanche se potessi: non ho nostalgia di quell’affanno, della fame di futuro. Ma mi mancano il culto della tempesta, la pulsione all’autoconoscenza, il desiderio quotidiano di sperimentare e sperimentarsi.

Forse è per le stesse ragioni che ho un rapporto conflittuale anche con la “narrativa adolescenziale”, che di rado riesce a coinvolgermi. Quello della cosiddetta “young adult” è un mare magnum, decisamente eterogeneo e pertanto difficile da navigare. Ma, al netto di molte eccezioni, mi pare ugualmente riscontrabile una certa tendenza alla polarizzazione del discorso sulla giovinezza intorno a due orientamenti opposti: da un lato, i romanzi scritti per ragazzi dagli adulti, che propongono spesso un immaginario viziato dall’estraneità, più rispondente al loro sguardo che all’oggetto su cui si posa; dall’altro i romanzi scritti per ragazzi da ragazzi stessi, che, se possono contare sull’esperienza del qui e ora, troppe volte non riescono a metterne a frutto il vantaggio, presentandosi piuttosto come proiezioni idealizzate di aspettative troppo alte o come confessioni stereotipate delle proprie frustrazioni. Il risultato frequente è quello di non rivelarsi all’altezza se non di raccontare la realtà, almeno di esprimere una qualche verità.

Fatta questa premessa, si spiega facilmente il mio interesse per il romanzo primo di Bianca Versienti, La strada dei pini d’inchiostro, vincitore del premio InediTo 2022, pubblicato da Edizioni Radici Future nel 2023, un esordio convincente proprio perché “adolescenziale” nel significato più nobile e autentico del termine.

Erano passati quattrocentoquarantuno giorni da quando ero diventata un’altra persona. Adesso non rifacevo più il letto, non uscivo quasi mai di casa, trascorrevo il mio tempo aspettando che altro tempo passasse. Sognavo di andare via, eppure restavo, perché sapevo che se lei fosse tornata, mi sarebbe venuta a cercare qui, nella cittadina in cui eravamo cresciute, ma che non avevamo scelto.

L’incipit, già intrigante di per sé, colloca subito il testo a metà strada tra il mystery e il romanzo di formazione. La storia si svolge nella cornice malinconica di Cape May, New Jersey – per la verità, la scelta americana dell’ambientazione mi aveva inizialmente fatto storcere il naso, e invece a Versienti va riconosciuto anche il merito di aver saputo svolgere un buon lavoro di ricerca, che le ha permesso di non peccare in verosimiglianza. Qui la sedicenne Kristine, sconvolta dal ritrovamento del cadavere della sua migliore amica, decide di indagare sull’omicidio per scoprire il mistero di un’anima apparentemente per nulla inquieta, che Kristine si era illusa di conoscere meglio di chiunque altro. Mossa, in fondo, dalla speranza di ritrovarvi frammenti di sé stessa e della propria generazione.

Avvincente anche nella trama investigativa – i colpi di scena sono ben dosati, il finale arriva inaspettato –, la narrazione si trova quindi a fare i conti con i principali crucci esistenziali della fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta: l’intensità delle amicizie e dei primi amori («Noah, ti amo talmente tanto che mi consuma»), la presa di coscienza della fallibilità dei genitori («Io sono convinto che appena me ne andrò e mamma e papà avranno un peso in meno da gestire, divorzieranno»), la necessità di compiere prematuramente scelte che potrebbero rivelarsi irreversibili per il proprio destino («Non avevo idea di come gestire il futuro, mentre i miei amici facevano progetti per l’università»).

In altre parole, la giovanissima Versienti (appena diciottenne) esplora il campo minato dell’adolescenza con una penna delicata che riesce a trovare il suo equilibrio fra intelligenza e genuinità. Crea un mondo in cui le tempeste vengono annunciate dalle veglie nervose dei presidi; i ragazzi possono permettersi di pronunciare sentenze drastiche («Va bene, grazie, ora puoi andare via. Le persone lo fanno sempre») senza per questo risultare patetici, solo simili alla propria età; i segreti restano a lungo nascosti sotto gli occhi di tutti perché gli sguardi sono ancora velati di ingenuità.

In questo contesto, ognuno dei personaggi cerca il proprio faro: i riferimenti a Gita al faro di Virginia Woolf tornano ossessivamente nel romanzo, quasi a volerne anticipare il significato ultimo («Amo quel romanzo perché mi ha messo davanti alla cruda realtà dei fatti, alla tendenza che ha chiunque a idealizzare le cose e ad avere aspettative per poi vederle per quello che sono veramente. È una realtà deludente che illude»).

Il personaggio che riesce a sviluppare il più equilibrato “moto al faro”, inteso come capacità di costruire un sogno da inseguire e in cui riconoscersi senza lasciarsene travolgere, si rivela essere la protagonista stessa, Kristine, che si autorappresenta invece come la raminga, la perenne indecisa, la meno centrata. In realtà, quel senso di smarrimento che segue Kristine per tutto il romanzo, come un profumo, non è altro che un eccesso di riflessività. La protagonista sa chi è, ma, pur essendone già consapevole, è desiderosa di continuare a scoprirlo, sottoponendosi a continue verifiche identitarie. Mi pare che in questo inno alla curiosità, in primis di sé stessi, si ritrovi un ritratto del meglio che dell’adolescenza dobbiamo continuare a raccontare.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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