Il peso del superfluo: su “Affamata” di Melissa Broder

Se dovessi riassumere in una frase l’ultimo lavoro narrativo di Melissa Broder, Affamata (pubblicato qualche mese fa da NNE nella traduzione di Chiara Manfrinato), forse la sua trama mi sembrerebbe fin troppo semplice: una giovane donna in sottopeso s’innamora di una giovane donna in sovrappeso. Eppure semplice questo libro non lo è affatto; al contrario, si tratta di un romanzo complesso, e irriverente, struggente, schietto, sensuale.

Il punto è che il valore letterario di Affamata sta tutto nel di più, nelle aggiunte che un editor troppo zelante avrebbe tagliato senza fabula ferire: nelle perle di saggezza che l’autrice ci regala en passant («Ecco qual è il problema dei paletti: durante le sedute di psicoterapia sembrano perfettamente sensati, ma appena cerchi di fissarli nella vita reale, gli altri non capiscono»), nelle contraddizioni interne ai personaggi («Ragion per cui mangiavo fuori, ma rivolta a una parete in cartongesso. Ero famelica e vorace: a volte inghiottivo un mappazzone di tacchino, cetriolini e peperoncino in una sola cucchiaiata, altre invece mi concentravo su un ingrediente specifico»), nelle rivelazioni epifaniche che giungono repentine e inaspettate («Che strano, verità e morte erano così simili»), nella ricorsività e smania di dettagli di alcune scene, soprattutto erotiche («Ci eravamo baciate piano, facendo giusto qualche impercepibile schiocco. Mentre le perlustravo l’interno della bocca con la lingua, l’avevo sentita deglutire. Poi mi aveva tolto le mani dalla faccia, me le aveva messe sulla ruga e mi aveva tirata a sé. Allora mi era sembrato che si fossero invertiti i ruoli: io ero diventata la figlia e lei era la madre protettiva. Anzi no, eravamo entrambe figlie, eravamo sullo stesso piano»).

La bellezza del testo risiede, in sintesi, nel superfluo. Il che ci fa sorridere, perché il più è esattamente quello che Rachel, protagonista e voce narrante del romanzo, si propone di eliminare. Venticinquenne di origini ebraiche, impiegata in un’agenzia di spettacolo di Los Angeles e stand up comedian, Rachel soffre di un disturbo alimentare. O forse no, quali siano i limiti da oltrepassare nel rapporto col cibo per entrare nella sfera patologico non mi è mai stato chiaro. Sta di fatto, ad ogni modo, che Rachel ha consacrato la sua esistenza all’autoprivazione e ora vive nel culto del meno: deve cercare di diminuire progressivamente le calorie (e le telefonate con la madre). Quindi, mentre si barcamena tra una famiglia anaffettiva (madre svalutante e padre assente), una psicologa low cost, un capufficio con una dipendenza dal politically correct e una collega perennemente in bilico tra ambiguità e meschinità, la protagonista investe la maggior parte delle energie nello sforzo di avvicinarsi a un ideale di perfezione assoluta, raggiungibile a suo avviso solo tramite il principio di sottrazione:

“Si dice che la perfezione è nemica del bene, che chi tende alla perfezione rischia di perdere di vista quello che ha di buono. Io però non ero d’accordo. Bene non mi bastava. Bene significa mediocre. E io non volevo accontentarmi della mediocrità. Io volevo essere eccezionale. Non volevo essere una taglia M. Volevo essere perfetta. E con perfetta intendevo meno”.

La vita di Rachel, almeno nella prima metà del romanzo, è un inferno. Quel tipo di inferno di cui aveva anticipato le caratteristiche Anna Maria Ortese: mancanze, freddo, vuoto. O, tornando a Rachel, una depressione che si nutre della continua mortificazione del sé. Le calorie non sono mai abbastanza poche e tu non sei mai abbastanza perfetta.

Per fortuna a interrompere il circolo del meno arriva Miriam, che ovviamente appare nel posto più imprevedibile, quello in cui Rachel è certa di trovare rifugio in uno yogurt bianco senza topping ed essere al riparo da tentazioni ipercaloriche: lo Yo!Good, tappa fissa delle sue pause pranzo. Miriam, la nuova cassiera, funge da contraltare luminoso al temperamento cupo della protagonista. Lei è tutto quello che Rachel non è: un tripudio di incoscienza, spontaneità, calore e soprattutto abbondanza («Era proprio grassa, come io non riuscivo a immaginarmi nemmeno nei miei incubi peggiori. Ma sembrava ignorarlo o fregarsene alla grande»).

Il loro incontro spezza, oltre all’ equilibrio psichico che la protagonista s’illudeva di possedere, quella parte della narrazione tutta ripiegata su sé stessa, quasi asfittica, che caratterizza la prima parte del romanzo, quando il racconto di Broder si focalizza sulla nevrosi di Rachel per il cibo. Con l’arrivo di Miriam, la penna dell’autrice s’impenna sulle curve del desiderio per avanzare – a volte a ritmo serrato, a volte con sensuale lentezza – in un percorso di esplorazione della sessualità e dell’innamoramento.

Forse le pagine meglio riuscite del romanzo sono proprio quelle dedicate alle esplicitissime scene di sesso, in cui Broder raggiunge l’obiettivo, audace come pochi, di risemantizzare la volgarità in libertà e sovversione. Rachel è una ribelle non perché affamata di sesso e piaceri e attenzioni, né perché portatrice di un coraggio che fatica a dosare (e che viene fuori nella sua interezza nell’incontro con la religiosa e rigorosa famiglia di Miriam), semplicemente perché autentica: mai indulgente con sé stessa, nel raccontarsi Rachel antepone l’onestà al pudore. La scrittura di Broder è vera in una formula che non si preoccupa di dar scandalo ­– e qui il plauso va non solo all’autrice, ma anche alla traduttrice Chiara Manfrinato, che riesce magistralmente nell’intento, rivelato nella sua Nota, di non chiudersi in un «italianetto di plastica» – mentre rappresenta, con una schiettezza mai autocensoria, tutta l’inquietudine della ricerca sentimentale. Più nello specifico, di quella ricerca di amore che così intensamente la si può vivere solo a venticinque anni, che s’incentra sul desiderio di uno straripamento totalizzante dei sentimenti e affonda nel legame fra eros e pulsione di vita (con tutto ciò che le è annesso e connesso, come l’alimentazione):

“Quello che desideravo, da sempre e più di ogni altra cosa, era essere accolta in un abbraccio totale, l’abbraccio di una madre infinita, assoluta e divina. Volevo smarginarmi e fondermi con un’altra donna, tornare nel sacco amniotico e sciogliermi. Volevo un amore senza fondo, incondizionato, privo di ripercussioni. Volevo uno yogurt infinito, uno yogurt mistico e materno, qualcosa da assumere in quantità illimitate senza che mi facesse male”.

Entrare nel vivo della relazione tra Rachel e Miriam, poi, significa anche interrogarsi sul legame delle nuove generazioni con le tradizioni di famiglia, in primis quelle religiose. E quindi con quelle figure che s’insinuano nel nostro inconscio durante l’infanzia per tornare a galla come reminiscenze di un passato che si è incancrenito nel sangue, segnando per sempre la nostra identità. Per Rachel, tutto questo è il Golem: una massa informe angelica e diabolica al tempo stesso, che rimanda tanto alla vita quanto alla morte, e che torna e ritorna ossessivamente a tormentarle i sogni. Un memento dell’ineluttabilità dell’appartenenza.

Affamata è l’ultimo volume della collana “Le fuggitive”, ideata da NNE per proporre «storie di donne in fuga, alla ricerca di libertà e di una rifondazione della propria esistenza». Nomadi, insomma: donne che hanno scelto il randagismo come cifra esistenziale. Rachel appartiene a questa categoria oltre ogni ragionevole dubbio, eppure, a differenza di quanto accade negli altri romanzi della serie, in Affamata i luoghi non assumono un valore narrativo centrale. La protagonista sembra sempre in movimento, è vero, ma in realtà non va da nessuna parte. Forse perché a volte è la propria interiorità il luogo da cui si tenta di fuggire. E mentre Rachel scappa dalle sue ossessioni, inciampa nei frammenti di sé stessa che tenta di sommergere e si ritrova in un nuovo taglio di capelli, il lettore esplora in tutta la sua profondità una voce così densa e intensa e sincera da contenerci tutti.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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