«Estoy trabajando, pero no sé que resultado tendrà, me parece que vendrà una novela proximamente, pero no tam proximamente» rassicura Guadalupe Nettel nel tour di presentazioni in Italia, svoltosi a settembre, per il suo ultimo lavoro, La vita altrove, pubblicato in anteprima per La Nuova Frontiera (traduzione di Federica Niola). Otto racconti incasellati da una scrittura netta, che scombinano il lettore trascinandolo in un mondo dal quale è difficile riemergere. Se nel Bestiario sentimentale (La Nuova Frontiera, 2018) il fil rouge su cui si muoveva la scrittrice era legato alle consuetudini animali e al loro feroce richiamo ai modi di fare degli uomini, in questo libro spazia su diverse zone di conflitto e di fragilità, assicurandosi di schiaffeggiare le pagine con la classe che le appartiene. Da L’imprinting, racconto d’apertura in cui si rimesta nelle pieghe (e nelle piaghe) delle vicissitudini familiari al vaglio dello sguardo innocente di una ragazza, si arriva a La confraternita degli orfani in cui la penna camaleontica dell’autrice è capace di analizzare punti di vista divergenti. Proprio quest’ultimo ricalca un forte impeto d’intensità, soggiogato artatamente da una autrice che governa le trame, offrendo spunti di riflessione di rara puntualità. Si fondono tre piani narrativi, che coesistono muovendosi nel dubbio. Un orfano, una madre e un figlio. In uno stallo di intenti che immobilizza l’azione per permetterle di chiudersi in maniera struggente, ricordando un frammento di quel futuristico Mommy di Xavier Dolan che con Einaudi in sottofondo lascia all’angoscia la sua missione.
A La porta rosa è affidata la riflessione sul tempo, in questi suburbi – che inevitabilmente odorano di sud America – in cui viene dilatato, disteso e poi frammentato. Stralci in cui la realtà si fonde a un mondo disordinato, in cui il realismo non può che essere inteso nel modo in cui tutta la tradizione letteraria di quella latitudine lo intende: magico. La luce di Guadalupe Nettel è all’interno delle zone d’ombra del testo, una penna così precisa non lascia spazio alle sbavature e sono allora le considerazioni in pillole – come racconto richiama – a far ridestare chi legge.
«Quando arrivai a casa, Anna aveva preparato la cena e mi aspettava leggendo nella sala da pranzo. Andai a lavarmi le mani e quando mi guardai allo specchio ebbi la sensazione che un individuo diverso si fosse impadronito del mio volto. Pensai all’altra casa per tutta la sera. Non abbandonavo l’idea che l’altro appartamento fosse più adatto ai miei gusti e al mio modo di essere, così come quello di avinguda de Mistral era più il genere di Anna. Mi dissi, per consolarmi, che un alloggio era in qualche modo simile a un figlio, in cui si combinano i geni di due famiglie. Nel nostro caso si erano imposti i gusti di mia moglie, ma magari nel trasloco successivo sarebbe toccato a me».
Il passaggio è tratto dall’omonimo racconto che raccoglie il titolo del libro. Uno di quegli assaggi in cui si tasta una materia così complessa – come le relazioni personali, le dinamiche che una coppia affronta e le fisiologiche increspature – e la si restituisce rendendola di facile fruizione. La scrittura di Guadalupe Nettel è un abito da sera, che presta la raffinatezza al servizio della sobrietà, perciò riesce a districarsi tra reale e fantastico, scendendo nell’inquieto senza scadere nell’insofferenza e analizzando la connessione con gli altri senza vestirsi di retorica. Quell’abito da sera le cade perfettamente addosso nel racconto che chiude il testo, Il torpore, in cui sfila la sua personale dissidenza che si addentra in un tema che il passato ci rende agrodolce. La reclusione, ancora vivido eppure all’apparenza già dimenticato.
La sensazione è che la scrittrice sia nella sua piena maturità – Annie Ernaux, presta la voce per caldeggiare le sue doti e chissà che non porti bene in ottica Nobel, ché nella storia si sa, è importante modelli e fortuna dalla propria parte –, e che le aspettative per la nuova “novela” scalpitino alle sue spalle. Dato il varare del mondo verso la visibilità e il giogo che la popolarità esercita, ci accodiamo invece alla richiesta contraria. A un tempo che rispetti la sua attesa. Non c’è fretta, solo la necessità di lasciar sedimentare le storie. Dato il varare del mondo verso la visibilità e il giogo che la popolarità esercita, l’attesa diventa non solo un privilegio, diventa necessaria. Attendiamo Guadalupe Nettel, quanto proxixamente vuole. La attendiamo perché ne vale davvero la pena.
Emanuele Grittani