Un romanzo collettivo: su “Cinque giorni fra trent’anni” di Francesco Fiorentino

Quando mi è capitato fra le mani l’ultimo romanzo di Francesco Fiorentino, Cinque giorni fra trent’anni (Marsilio 2023), la prima sensazione che ho provato è stata di disorientamento: la copertina alla Jules e Jim e il titolo nostalgico – che lascia già intuire la capacità del romanzo di farsi evocativo pur in assenza di una vocazione allegorica –, preannunciavano un’inversione di rotta rispetto al precedente percorso del suo autore.

E in effetti, se Futilità (Marsilio 2021) si reggeva interamente sul punto di vista maschile, Cinque giorni fra trent’anni è invece un romanzo in episodi (che partono dagli eventi di trent’anni fa per irradiarsi nell’oggi) tutto al femminile: un mosaico di “passanti”, per dirla con Antoine Pol,  le cui storie sono state intrecciate dal destino attraverso radici familiari o incontri casuali.

A proposito di donne per cui “sarebbe valsa la pena perdere un secolo in più” – per restare sulle note di Brassens –, la prima che incontriamo è Roberta, la cantante di un nightclub che sbaraglia quanto a fascino le compagne del collettivo studentesco, e che rappresenta quasi un romanzo a sé stante. Unico personaggio di estrazione proletaria, Roberta si fa scudo di un’unicità sottolineata a più riprese dall’autore stesso: «Pur non essendo per nulla civetta, Roberta è il tipo che lega di più con gli uomini, perché non le interessano molte delle cose che importano alle donne».

Ma ognuna delle protagoniste di questo romanzo è avvolta in un alone di mistero. Dall’amante del preside all’avvocatessa rampante, dalla pasionaria «irrequieta, coraggiosa, impegnata in tutte le battaglie in cui si è imbattuta» alla professionista alle prese con la crisi della mezza età, i personaggi femminili che si alternano, tra presente e passato, sulla scena narrativa – la narrazione si caratterizza per una forte impronta teatrale –, sembrano tutti custodire gelosamente moltitudini segrete. A dispetto della sessualità libera presentata nel romanzo, le donne sono impenetrabili. Risultano sempre in qualche forma inaccessibili, e l’autore è abilissimo nel trovare un equilibrio tra l’indagine psicologica (nell’interiorità dei personaggi la penna di Fiorentino affonda tagliente come un bisturi) e il desiderio di non rivelare troppo, per lasciare il fascino femminile intatto per il lettore. E’ questa l’atmosfera in cui ci sentiamo immersi mentre familiarizziamo con Elvira e le sue ferite da assenza (di amore, anzitutto), con i conflitti etici e identitari di Emilia, con lo sviluppo delle amare consapevolezze di Carla e Lea, con la poetica dell’eccesso che guida azioni e relazioni di Ada.

A legare questo romanzo al precedente interviene, comunque, una costante tematica: la rappresentazione dei nati negli anni Cinquanta, coi loro rimpianti, le loro illusioni, le sconfitte. Un romanzo generazionale, dunque? Per quanto corretta, questa definizione mi pare miope dell’essenziale. Cinque giorni fra trent’anni è anzitutto un romanzo collettivo, su molteplici piani, in cui il noi riecheggia molto più nitido dell’io. Un romanzo dedicato alla collettività degli abitanti di ieri: la lettura perfetta per chi rifiuta qualsiasi dissociazione fra sentire politico e agire culturale, per chi ha tentato di risemantizzare l’appartenenza riconoscendosi nei legami umani, per chi ha bisogno di massicce dosi di irreale per rendere il reale un luogo abitabile, per chi non rinuncerebbe mai a sfidare (con le armi che abbiamo a disposizione, l’immaginazione, la letteratura) la piatta amorfità del presente.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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