Le parole possono essere di due misure, ci dice Anna Cannavò, undicenne siciliana, protagonista e voce narrante dell’ultimo romanzo di Simona Lo Iacono (Il mistero di Anna, Neri Pozza 2022). Ci sono le parole «di misura oppressa»: quelle che pronunciamo perché dobbiamo, in un registro di convenienza che ci è utile conoscere e assecondare per abitare serenamente il mondo («Sì, grazie, prego. Certo, maestra. Subito, maestra»). E poi ci sono le parole «di misura libera», quelle che servono davvero a esprimere sé stessi, che vanno alla ricerca del vero per tentare di racchiuderlo nella lingua («lì la parola è come la verità, devi per forza pensarla nuda e cruda»).
In questa riflessione mi pare si possa già scorgere in controluce la fisionomia di questa storia delicata, intuire l’anima del romanzo e l’anima della sua protagonista.
Partiamo da Anna Cannavò. Anna mi è parsa subito un personaggio nothombiano, una di quelle figlie uniche che, ancora bambine, già sono abituate a vivere immerse nei problemi degli adulti, quindi per istinto di sopravvivenza hanno sviluppato un’intelligenza stra-ordinaria che le trattiene su un’altalena: passano dall’innocenza dell’età a una saggezza antica e brutale, senza mai posare i piedi per terra, senza mai lasciarsi ingabbiare dalle mezze misure. Siamo nel 1968, il padre di Anna ha perso il lavoro, la madre è una sarta a domicilio e la bambina ha la sua ultima occasione di riscatto prima di dover abbandonare gli studi: partecipa a un concorso scolastico, in palio una settimana con la vincitrice del Premio Strega. E così Anna si ritrova a Milano, in casa Ortese, per sette giorni, che trascorre con la scrittrice Anna Maria e la di lei sorella Maria. Nonostante le perplessità del direttore scolastico e della maestra, Anna ha accesso alla dimensione domestica, quella più intima, di Anna Maria Ortese. La quale, a sua volta, riconosce subito nella bambina una delle sue amate creaturine, una piccola persona («zompetti come ‘nu cardilluzzu, mi ha detto») e la accoglie sotto la sua ala protettiva.
A completare il ritratto di Ortese – direi che questo romanzo è una biofiction, ma mi suona riduttivo, mi sembra che qualsiasi etichetta gli vada stretta – interviene la corrispondenza epistolare della scrittrice con un’amica di penna, un personaggio meno lontano dalla nostra protagonista di quanto inizialmente si potrebbe pensare.
Anna Maria può quindi mostrarsi nuda, è libera di rivelare tutta sé stessa a una sorella di affinità elettive e a una bambina nella cui risata sente riecheggiare le sue stesse lacrime. La inquadriamo da prospettive diverse (anche quella di Maria, che spiega e giustifica le abitudini della sorella alla piccola Anna), il che ci permette di penetrare in profondità nell’essenza di una donna terribilmente complessa, abitata dalle contraddizioni: il suo amore per la Natura si piega al tabagismo, la sua attrazione per il celeste non riesce a contrastare la fobia di volare. Anna Maria ci guarda dalla sua scrivania solitaria, in cui si rifugia «come un animale nella tana», dove tollera soltanto la presenza dei libri e della macchina da scrivere, e da cui si alza sempre «tutta sottosopra», perché la prima lezione che impareremo da lei è che scrivere è un’operazione meno gioiosa e meno liberatoria di quel che immaginava la piccola Anna. La scrittura, al contrario, nasce dal dolore, dalle mancanze:
«E d’un tratto, mi si sono chiarite le idee sulla signorina Anna, sul perché metteva i vestiti da donna alle iguane, e cercava le periferie, e parlava di creature piccole e di pianeti. Era perché la poesia prendeva il posto di chi non c’era, e non è che lo sostituiva, ma almeno, in attesa della resurrezione della carne, lo poteva raccontare».
Questo inno a una scrittrice ombrosa – segnata dai lutti e dagli abbandoni, che si regge sulla sorellanza («come se oltre che sorelle erano pure due scampate a un terremoto, a una frana, a una disgrazia», ci dice Anna sulle due Ortese), pervasa di una spiritualità totalizzante che la porta a tentare di svincolarsi dalla dimensione del reale cercando «l’invisibile nel visibile» e a compiere ogni scelta (umana, politica) restando fedele a un’etica della compassione universale («Comunismo per me non ha altro senso che dolore comune a tutto il Creato») – risuona come una dichiarazione d’identità da parte di Lo Iacono, che implicitamente ci confessa di riconoscere nella poetica di Ortese le radici della propria.
Del resto, i tratti identitari di Lo Iacono risplendono tutti in questo romanzo luminoso. C’è la sua attenzione per la dimensione del femminile, osservatorio privilegiato delle storture della Storia. C’è una banda di personaggi stravaganti e scalcagnati, che molto si avvicina all’immaginario del realismo magico («Altri due giorni e devo lasciare i milanesi, la signorina Anna che crede nella disciplina dello straordinario, la signorina Maria che fa le delicatezze e si riconosce solo con il pettine in testa, il gatto mezzo cieco che neanche sa cos’è la pensione d’invalidità»). C’è la consueta sensibilità nella rappresentazione dell’infanzia, in chiave creaturale. C’è la riflessione intorno alla Sicilia, terra in cui non è contemplata la possibilità dell’esistenza senza l’appartenenza. C’è tutta la sperimentazione stilistica di una lingua che rifiuta di piegarsi allo standard, e alla fine si amalgama in un impasto letterario lievitato col dialetto siciliano.
E ora possiamo arrivare all’anima del romanzo. Come tutti i libri ben riusciti, questo è un testo poroso, su cui non è facile tentare un’operazione interpretativa di reductio ad unum. Mi pare che, tra i molti percorsi di lettura possibili, questo romanzo lo si possa leggere anche come un’indagine sul potere della parola, sulla funzione materna della scrittura – si badi: materna, non salvifica. Perché la parola forse non è in grado di salvare (anzi, non mancano i personaggi caduti nella guerra contro la parola), ma di certo è in grado di accogliere, di com-prendere. Perché i libri devono essere, ci dice Lo Iacono attraverso la voce di Ortese, «viventi», devono vibrare della magia della creazione. E a noi, a lettura ultimata, resta la convinzione (in effetti affine alla visione ortesiana) che i libri siano fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.