Fobie sociali e coscienza letteraria: su “Il predatore” di Marco Niro

L’ambientazione del romanzo di Marco Niro Il predatore, fresco di stampa per Bottega errante, non delude le aspettative che il lettore nutre verso il noir più legato alla tradizione. La storia si svolge infatti in un paesello sperduto in mezzo alle  montagne, a una prima impressione fin troppo tranquillo («Era tutto levigato, a Cimalta, tutto conciliato, tutto ordinato, tutto civile. Almeno all’apparenza»). Poche anime e molta ipocrisia. Certo, siamo in Italia; ma l’aria del Nord spira sulle Alpi abbastanza forte da congelare ambizioni e rimpianti. E da avvolgere il borgo nella nebbia di una psicosi collettiva, una sorta di versione postmoderna di “Al lupo al lupo”: un orso, prontamente battezzato Thor dalla stampa in virtù della sua forza aggressiva, ha iniziato da qualche tempo a dedicarsi allo sterminio sistematico degli abitanti di Cimalta. O almeno così pare.

Che si tratti di una vendetta della terra, in quella zona in cui i cacciatori si illudono da secoli di poter esercitare sull’ambiente un’egemonia indisturbata, complice la miopia dell’amministrazione locale retrograda? Oppure nelle colpe attribuite alla mostruosità della natura l’uomo nasconde la sua, di bestialità?

Ciascuno dei cimaltesi risponde a modo proprio, ma tutti (o quasi) restando egualmente ciechi dell’essenziale. I giovani, la maggior parte dei quali la montagna già non la amava (e figuriamoci ora che i suoi boschi non possono più rivelarsi utili nemmeno per portarci in gita le turiste), si domandano se la loro generazione non sia quella per cui è giunta finalmente l’ora di emigrare in città. Le ragazze si disfano degli orsetti di peluche. Le madri si battono contro gli insegnamenti ambientalisti della scuola. E alla fine tutti (o quasi) convergono nell’affidarsi alle cure di un santone prezzolato, sedicente amico delle anime della natura, certo di riuscire a invocare gli spiriti della locale popolazione di plantigradi per educarli alle buone maniere con un po’ di meditazione.

Fanno eccezione soltanto uno sbirro troppo ambizioso, che comincia a interrogarsi sugli ingranaggi del sistema proprio quando gli farebbe più comodo non porsi la proverbiale seconda domanda, e un prete dall’indole ribelle che nella crisi mistica ha ritrovato il senso della vita («Non contava, in fondo, se era in nome di Dio o degli uomini che il male veniva contrastato, contava contrastarlo e basta»).

Quando i nodi tematici cominciano a venire al pettine e la complessità dei quesiti esistenziali dei personaggi si disvela sulla pagina in tutta la sua potenza, appare evidente che la base di genere, seppur costruita ad arte, non sia il punto di approdo ma quello di partenza da cui l’autore prende avvio per avventurarsi in direzioni assai più tortuose. Una letterarietà radioattiva alberga in questo romanzo che scruta negli interstizi tra realtà e verità per indagare il rapporto dell’uomo con la natura, la fede, la politica. Molti elementi contribuiscono a creare l’aura letteraria intorno al testo: ad esempio la densità dei riferimenti intertestuali, in particolare a Saramago, che si offrono come un suggerimento essi stessi, se non sullo scioglimento della trama, almeno sull’intenzione autoriale. E soprattutto la scarsa obbedienza alle convenzioni della narrativa noir, in particolare in relazione al bilanciamento fra azione e riflessione (c’è davvero bisogno di indugiare sulla brutalità degli eventi e sui dettagli delle inchieste o basta l’inquietudine di un popolo che si cerca senza mai trovarsi a generare l’orrore? – sembra chiedersi Niro). Anche se, va precisato, l’intera operazione si svolge senza mai tradire la fiducia dei lettori: come un abile tessitore, l’autore ricongiunge tutti gli elementi della sua tela in una narrazione che pagina dopo pagina diventa sempre più avvincente, inchioda chi tiene il libro tra le mani alla necessità di una soluzione apparentemente impossibile.

Che sotto le mentite spoglie del noir si celi un romanzo filosofico?  Di indizi in questo senso ne abbiamo diversi. Ma, per non rischiare di privare il lettore del gusto della scoperta, tralasciamo le tracce interne e spostiamoci dal testo al contesto. Il predatore è l’esordio da solista di Marco Niro, uno dei due componenti dello storico collettivo di scrittura Tersite Rossi. Ci si potrebbe chiedere allora se prevalgano gli elementi di continuità o di rottura col precedente percorso autoriale. A voler tracciare un bilancio meramente quantitativo, si resterebbe in equilibrio. Il lato oscuro si apre al mistero, e questa è una novità assoluta nella produzione del duo. Il lavoro in solitaria deve poi aver giocato a favore della crescita di Niro, che stavolta firma un libro ancor più maturo, in grado di distinguersi per la solidità dell’architettura narrativa. In sintesi, nella nuova fatica letteraria di Tersite Rossi 2 le sorprese non mancano.

Eppure, in un bilancio qualitativo, propenderei per l’ipotesi della continuità. Perché anche questo romanzo lo si apprezza in virtù di quella poetica che affonda le radici nei precedenti: per l’urgenza della scrittura come necessità di sfogo critico, per la volontà di dare un volto agli antieroi del nostro presente, per la curiosità antropologica che anima descrizioni e rappresentazioni. E, in primis, per la capacità di allegorizzare il dibattito contemporaneo dando forma narrativa alle paure sociali più recondite.



Annachiara Biancardino, foggiana di nascita e barese d'adozione, ha sempre amato troppo i libri, infatti si è laureata in Lettere. È editor e consulente editoriale freelance, direttrice editoriale di Les Flâneurs Edizioni, fa parte del direttivo dell'associazione culturale Lessico e Nuovole ed è membro della Società Italiana delle Letterate. Suoi articoli sono apparsi su varie riviste specializzate e blog online.


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